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Metamorfosi in Viola – Metamorfosi in Viola

Il disco omonimo della band di Simone Osmari, che sto imparando progressivamente a conoscere, si dimostra molto vario dal punto di vista delle sonorità e degli spunti sonori, molto ricco di idee diverse e capace di utilizzare suoni e rumori che lasciano stupito l’ascoltatore, in una sorta di sperimentazione sonora, che giustappone appunto suoni e rumori appartenenti alla vita di ogni giorno, in un collage piuttosto articolato e rappresentativo del mondo della natura che ci circonda, e non solo.

La copertina mostra l’immagine di un fiore nella sua completa fioritura, con le sue diramazioni e le sue infiorescenze al massimo della crescita: questa immagine si può ricollegare a quanto verrà svolto all’interno della prima canzone, che va a rappresentare anche il mondo naturale con una svariata serie di suoni che a volte diamo per scontati, ma che costituiscono un tesoro prezioso da rispettare e di cui godere.

Apparentemente, non abbiamo un vero e proprio collegamento tra i titoli delle canzoni e i loro contenuti: è necessaria quindi un po’ di capacità immaginativa per trovare delle connessioni, anche se quello che ci interessa maggiormente sono ovviamente i contenuti rispetto al titolo che gli viene assegnato.

L’album, a mio parere, riesce a condensare in sole sei canzoni una gran quantità di spunti e di riflessioni sonore, oltreché di indicazioni per l’ascoltatore, che deve possedere un orecchio attento per cogliere le varie sfumature di significato presenti nel disco: da parte mia, io ammetto di averlo ascoltato tre volte prima di mettermi a scrivere questa recensione, per avere le idee più chiare in merito ai significanti e ai significati insiti in ogni brano; ciascuna canzone, a mio parere, rappresenta un universo a sé, non essendoci apparentemente un filo conduttore che lega i vari episodi sonori della fatica discografica, ma una giustapposizione di una ricca varietà di elementi sonori, che va a differenziarsi di brano in brano, dipanando una matassa che forse al primo ascolto potrebbe apparire difficile da sciogliere.

“Metamorfosi In Viola” si apre con la canzone interamente strumentale intitolata “Benedici Stocazzo”, che alle persone più religiose e praticanti potrebbe apparire un po’ blasfema. Io stesso ho fatto fatica a trovare un’interpretazione valida a questo titolo, e un collegamento con quanto presente all’interno del brano: forse la band ha voluto mostrare con questo titolo la propria contrarietà ad ogni tipo di interpretazione religiosa dei fenomeni naturali, con l’intenzione di essere, attraverso la provocazione, un manifesto per chi crede che il mondo e la natura stessa non siano stati creati da un Essere superiore, ma siano il risultato di millenni di evoluzione appunto naturale, che non ha bisogno della benedizione di alcuna divinità per svilupparsi nella sua interezza e nella sua complessità.

Il brano mi ha riportato con la mente ad alcune delle sperimentazioni sonore eseguite dai Pink Floyd nell’album “Ummagumma”, nel quale una canzone, dal titolo lunghissimo e quasi impronunciabile, era costituita essenzialmente dai suoni della natura, raggiungendo vette di esplorazione sonora mai concepite prima, o almeno concepite da una ristretta cerchia di gruppi di nicchia.

Nel brano dei Metamorfosi In Viola, oltre ai suoni della natura, ci sono anche sonorità che appaiono essere legate alle esplorazioni spaziali fatte dall’uomo, suoni che appartengono ad un mondo che rivolge lo sguardo verso il cielo, piuttosto che puntarlo diritto sulla Terra.

Tutto ciò mi ha suggerito come riferimento quanto fatto da David Bowie, il quale, quando interpretava una dei suoi tanti personaggi, cioè l’alieno Ziggy Stardust, inseriva nelle proprie canzoni degli accenni ad una rumoristica proveniente appunto dal mondo degli astronauti e degli esploratori dello spazio, come contorno ed accompagnamento ai consueti strumenti utilizzati da una band, cioè chitarra, basso e batteria.

Nel brano dei nostri, invece, non c’è nessun accenno a questi ultimi strumenti, essendo esso costituito solamente da suoni e rumori, con qualche accenno vocale femminile che sussurra il nome del gruppo: la canzone sembra aprirsi con quello che sembra un rumore di onde che si infrangono sugli scogli, con una voce robotica che accenna due battute e con il tintinnio di due monete a fare da accompagnamento.

La voce robotica di cui sopra mi ha fatto pensare ad uno dei più famosi gruppi krautrock della storia, i Kraftwerk, che erano grandi appassionati del mondo della robotica e della tecnologia, non facendo mancare alcun accenno a questi all’interno delle proprie opere, in un genere definito maggiormente dalla rumoristica che dai suoni veri e propri.

Un altra band che mi ha ricordato questa canzone sono i Daft Punk, anch’essi dediti alla musica elettronica, con sonorità artificiali accompagnate da testi ossessivamente ripetitivi, spesso declamati da entità robotiche e meccaniche, più che da persone umane.

Siamo poi di fronte ad uno sviluppo sonoro che procede incrementandosi progressivamente, con sonorità dal carattere apocalittico che creano tensione, pathos e aspettativa, come se ci trovassimo all’interno di uno dei momenti topici di una serie televisiva molto thrilling, che colpisce dritta dritta la sensibilità di chi la sta guardando, giocando con le sensazioni di paura e attesa che è riuscita a creare.

Abbiamo quindi un ricco assortimento di sonorità, che vanno dipanandosi attraverso il rumore dell’acqua, le voci umane che si sovrappongono a quelle robotiche, un sottofondo costituito da una serie di suoni atti a creare atmosfera e tensione e il rombo di una navicella in partenza.

In soli due minuti di canzone ci ritroviamo ad avere una summa di tutto ciò che può offrire al mondo della canzone la rumoristica e la robotizzazione, che si mescola in modo sapiente con i suoni provenienti dalla natura e crea un insieme interessante e coinvolgente, perché acuisce tutti i sensi dell’ascoltatore, che fin dalle prime battute drizza le orecchie per captare le frequenze spaziali che gli vengono offerte.

Mi è parso interessante questo mix tra rumori naturali e rumori artificiali, ho apprezzato l’idea di inserirlo all’interno di una canzone, come se fosse un’introduzione complessa a ciò che deve venire dopo: la complessità è data proprio da questa mescolanza di sonorità diverse, che crea l’ambiente ideale per sviluppare una sensazione di pathos e di attesa.

Il secondo brano si intitola “La Sfida Del Silenzio”, e ad un primo sguardo può apparire come l’esplicazione in musica di uno dei giochi più popolari negli anni scolastici, cioè il “gioco del silenzio”, quello che si faceva con i gessetti nascosti nelle mani, che i compagni dovevano trovare nella mano giusta.

Certo che, in un mondo così caotico, trovare un po’ di silenzio appare veramente come una sfida: è necessario cercare bene, per trovare dei luoghi sufficientemente lontani dalla civiltà, nei quali godersi il vero e reale silenzio.

Questa canzone non è interamente strumentale, ma ha una parte di cantato: l’introduzione è costituita da un lungo arpeggio di quella che appare essere una chitarra classica o acustica, che crea atmosfere molto folk, ma che mi ha ricordato anche le intro di alcune canzoni dei Lacuna Coil, gruppo metal italiano, che ama questo genere di atmosfere “arpeggiate”, per poi esplodere successivamente in tutta la sua potenza.

La chitarra è accompagnata dal suono delle tastiere, che contribuiscono a creare delle sensazioni legate al mondo orientale, quasi che ci si trovasse di fronte ad una canzone tradizionale giapponese: con l’entrata della voce arrivano anche le percussioni, che sembrano fatte su di un tamburo dal suono cupo.

Si dice di guardare un vecchio che ora non c’è più, probabilmente perché é morto, e quindi si potrebbe affermare che siamo nel campo dell’immaginazione: la protagonista femminile del brano si rigira nel letto, sperando di trovare ancora al suo posto il proprio amato, che non vuole perdere il rispetto di ogni altro suo uomo e che chiede un umile perdono; la voce è molto espressiva e struggente, con toni malinconici e a volte sussurrati.

Si entra poi nel campo della critica sociale, perché si afferma che la politica nasconde i contrasti sociali e che la polizia nega la verità anche ai giornali: il tutto è seguito da un intermezzo sonoro creato ancora dalla chitarra e dalle tastiere, con un rapido giro di basso che fa da introduzione al cantato che si inserisce di nuovo; la voce principale adesso è accompagnata da una seconda persona femminile, che fa da controcanto.

La questione si fa inquietante, perché si parla di un cadavere posto dietro alla macchina, e questo elemento fa un po’ da contrasto al tema amoroso che era stato sviluppato fino a quel momento: che si tratti di un omicidio passionale?

Il nostro protagonista attende comunque un nuovo silenzio per tuffarcisi dentro e dimenticare il tutto: il significato di tante parole che vengono spese è che ci vuole meno amore, e anche questo verso sembra in apparente contrasto con le logiche di vita consuete; forse si intende che è necessario non disperdere questo stesso amore, ma focalizzarlo su un’unica persona, magari in quantità minore, ma nel posto giusto.

Si ritorna poi alla critica sociale, in quello che appare essere un breve ritornello, nel quale si afferma di nuovo che la politica cela i contrasti sociali e che la polizia nega la verità anche ai giornali: dopo questa ripetizione, non c’è un lungo intermezzo, ma riparte da subito la voce principale, accompagnata dalla seconda voce, che dice di sentirsi sempre più un disperso nell’inferno della vita e di guardarsi in uno specchio che sta diventando sempre più nero; sembra che tutto venga dipinto a tinte fosche e non ci sia alcuno spazio per la speranza.

A questo punto, si ha un ispessimento sia della parte vocale che di quella sonora, con delle pennate di chitarra che si fanno più pesanti e due voci che si fanno più disperatamente urlate: succederà che allora la propria amata dirà al nostro protagonista di amare solo i suoi guai, che tutte le persone e tutte le cose perderanno il proprio profumo; allora in tutto ciò c’è comunque un barlume di speranza, perché si ritrova ancora della carne viva e una vita, una sfida da affrontare.

Parte poi un lungo e interessante assolo di chitarra elettrica, che occupa una ventina di secondi in maniera struggente e malinconica, al termine del quale si ritrova la voce, che parla di una nebbia che scende, del fatto di ritrovarsi ancora disperso in un inferno, di guardarsi ad uno specchio che è sempre più nero: a quel punto, la sua lei gli dirà che ama solo i suoi guai, probabilmente perché sono l’unica cosa che lui è capace di offrirle.

La cose e le persone non hanno più profumo, ma c’è ancora comunque della carne viva, una vita da vivere e una sfida da affrontare: la canzone si conclude con queste parole, dopo le quali ci sono dei brevi vocalizzi delle due voci, al di sotto dei quali spicca il suono profondo del tamburo; questi vocalizzi sono la parte terminale del cantato, e la linea melodica non va in dissolvenza, ma si avvicina progressivamente al proprio termine naturale, con un ultimo battito del tamburo a sancirne la conclusione.

La terza canzone, chiamata “ISY”, può far pensare sia al termine inglese “easy”, cioè “semplice”, che al nomignolo dato ad una persona cara, ad una persona a cui si vuole bene: si potrebbe trattare anche di un acronimo, la cui interpretazione però risulta difficoltosa.

La canzone si apre con un lungo, romantico e malinconico arpeggio di chitarra classica o acustica, che tanto somiglia agli studi per chitarra che suonavo da bambino: questa intro si prolunga per una trentina di secondi, poi interviene la parte vocale, che canta in modo sommesso e sussurrato, tanto che si fa fatica a capirne le parole.

Sembra si parli di uno sguardo verso il passato, di un ossessione per una donna, del volteggiare dell’aria che si ode la notte, tutti elementi che si vogliono inserire nella canzone.

La parte di chitarra viene poi accompagnata da una linea di percussioni, che anche in questo caso appaiono simili al suono di un tamburo, ma che sono piuttosto accelerate: la voce si fa più graffiante, urlata e struggente e si descrivono gli sguardi che a volte sfuggono perché la notte ce li nega, aggiungendo che si sente solo piangere, mentre invece la madre ride, in un contrasto che rende i versi ancora più struggenti nella loro apparente tenerezza.

Quando però il nostro protagonista ha visto arrivare la sua lei, dice di aver provato una gioia data dall’amore, che lo ha fatto uscire da quella situazione un po’ discordante, costituita da un misto di sensazioni diverse: aggiunge di averla vista crescere, in una crescita reale e non fittizia, quindi credo sia nel corpo che nell’intelletto.

Quello che conta è che alla fine lei è lì insieme al nostro protagonista: alla voce principale si affianca anche in questo caso una seconda voce femminile che canta “I Love You”, ripetendolo per due o tre volte in maniera dolce e avvolgente, come per stringere in un abbraccio.

Successivamente, la voce torna ad essere una, e riafferma che a volte sfuggono gli sguardi che la notte ci vuole negare, che sente solo piangere, mentre sua madre invece ride: ma quando ha visto arrivare la propria donna, ha provato una  gioia autentica, data dall’amore; si aggiunge ancora una voce femminile, che fa da dolce e amorevole controcanto.

Lei ora è presente, e lì con lui, che afferma in inglese, insieme alla voce femminile, di amarla: l’atmosfera, in questa parte di canzone, diviene davvero dolce e avvolgente, fatta dal melodioso suono di strumenti ad arco, dagli accordi di chitarra e dal battito del tamburo.

Parte poi un lungo assolo di chitarra, che va a concludere la canzone in modo stilisticamente perfetto, proponendo un tema ed eseguendo una piccola variazione su di esso: la linea vocale si ferma e restano solo le note struggenti e graffianti della chitarra, che la fa da padrona e ha l’ultima parola sul pezzo, determinandone la parte finale e testimoniando che anche un assolo può essere eseguito con tutto il cuore, e questa sensazione si percepisce molto.

Segue poi la quarta canzone del disco, intitolata “Ottodixtorto”, il cui titolo mi riporta alla mente il simbolo dell’infinito, che non è altro che un otto rovesciato, un infinito che può essere stato distorto, disturbato da cause naturali o umane: può essere che si parli di un legame che appariva estremamente duraturo, ma che invece ha subito delle storture che l’hanno condizionato per sempre. Curioso l’utilizzo della lettera x al centro del titolo, quasi a voler significare un moltiplicatore di questa distorsione, che è andato ad amplificarla ancora di più, rendendola sempre più grande e fastidiosa.

Il brano parte con una intro di chitarra acustica molto vivace e brillante, a cui si accompagna una linea di basso profonda e sostanziosa, su toni avvolgenti: si può udire anche, se si presta attenzione, quella che appare essere un’altra linea di basso, ma distorta, che si incrocia e si integra con quella principale, creando un interessante gioco di assonanze e dissonanze, che determina varietà.

Questa intro sembra essere piuttosto lunga, e dopo un po’ appare una voce che tiene una nota fissa e prolungata, mantenendosi sulla vocale “a” e creando un effetto straniante e misterioso.

Ad un certo punto, poi, la linea di chitarra acustica si fa più consistente, con pennate più robuste e accordi, con l’accompagnamento sempre costante di sonorità che sembrano provenire dallo spazio, dei flash sonori che ricordano quelli presenti all’inizio della canzone “It’s a Kind of Magic” dei Queen.

Dopo questa intro molto duratura e consistente, parte il cantato vero e proprio, con la voce che afferma che la persona a cui si rivolge sa quel che ha, che ora sa che è tutta colpa sua: non dirà all’altra persona quello che farà, ora che è venuto a conoscenza della verità: alla voce principale, quella maschile, fa da controcanto una voce femminile, che ripete dei frammenti di testo, creando un bel contrasto tra due tonalità e vocalità diverse, in un gioco di domanda e risposta piuttosto intrigante.

Il testo è tutto un gioco sui verbi “sapere”, “fare” e “dire”, con i protagonisti che apparentemente non vogliono dire né che è colpa loro, né quello che faranno ora che conoscono come stanno veramente le cose: all’incrocio delle due voci, fa da contraltare anche quello verbale, con le stesse forme verbali che si vanno ad intersecare fra loro, in un gioco di contrasti e rimandi che cattura l’attenzione dell’ascoltatore, perché è necessario tendere l’orecchio per poter interpretare questa escalation di intersezioni e rimandi reciproci.

Il protagonista non sa più se riavrà quella che sembra essere la sua amata, non sapendo addirittura se sarà ancora vivo oppure no: a tutto questo, segue una parte solamente strumentale, con la chitarra acustica che fa da protagonista, accompagnata sempre dal basso e da quello che appare essere un tamburo, un bongo, che rende il tutto maggiormente tribale ed esotico.

Poi, la voce ricomincia la sua narrazione misteriosa, elencando degli elementi vitali che fanno parte dell’esistenza di ciascuno, elementi che la stimolano, come il sesso, il vino, la natura e una battona, aggiungendo che prega in una stanza di essere ancora in grado di sperare, di poter ancora guardare la propria lei con occhi vivi: c’è ancora l’alternanza e la sovrapposizione della voce maschile e di quella femminile, con quest’ultima che diviene ancora più potente e stentorea, andando quasi a coprire la voce maschile e principale e creando quasi una competizione in termini di potenza e determinazione.

Dopo un’ulteriore sprazzo di strumentalità, abbiamo le due voci che procedono in sincronia, parallelamente, parlando di una terza persona che innalza la mente con teorie affascinanti, ma che si perde inevitabilmente e sempre nel vuoto che si trova perennemente davanti, andando a comprare sigarette per uscire dalla propria tana, ma trovandosi sempre davanti qualcuno che lo sbrana.

Appare interessante questa contestualizzazione nel mondo animale, come se la vita fosse una giungla in cui si corre sempre il rischio di essere sbranati dagli animali più grossi, affermazione che non va molto lontano dal vero.

La canzone si conclude poi senza altri versi, ma con due assoli uno di seguito all’altro, il primo di una chitarra acustica dal suono cristallino, il secondo di una chitarra elettrica dal sound profondo e penetrante: non ci sono parole ad accompagnare il tutto, ma solo una vocale tenuta in modo prolungato, come se fosse un grido che testimonia uno stato di sofferenza e dolore.

Eccoci alla quinta canzone dell’album, “TrucchiColati”, che può fare riferimento ad una situazione di disperazione e pianto, in cui le lacrime fanno appunto colare il mascara messo sugli occhi, rendendo evidente all’esterno uno stato di sofferenza interiore.

Non credo che si faccia riferimento alla magia, perché non ci sono trucchi magici che colano, ma solo ciò che si utilizza per rendere perfetto il proprio volto, nascondendo le imperfezioni e i difetti, che vengono comunque a galla perché appunto i trucchi colano, non svolgendo più la loro funzione principale.

Anche in questo caso, abbiamo una lunga intro, fatta da una chitarra acustica molto brillante, accompagnata da quelli che sembrano essere degli inserti di tastiere dal suono sintetizzato, che vanno a raccontare quasi una storia in musica, con un perfetto accordo tra le componenti e una sonorità complessiva perfettamente articolata e strutturata.

Ad un certo punto, appaiono di nuovo le due voci, che partono tenendo una nota e una vocale in modo prolungato, quasi in un grido sommesso, che sembra faticare a manifestare la propria sofferenza: abbiamo poi il cantato vero e proprio, con l’affermazione che verranno versati tutti i propri rimpianti e che si penserà a lungo ai temporali estivi, quasi che ci si stia pentendo di quello che si poteva fare ma che non si è fatto nella stagione calda, con i temporali che sopraggiungevano a lavare via tutte le buone intenzioni, che restavano dunque tali.

Si riflette anche sulla depressione e sugli stati di eccitazione, due casistiche umane apparentemente contrapposte, contrastanti, segno forse di una leggera confusione mentale in cui si è piombati, che non permette più di distinguere una cosa dall’altra.

Questa sensazione sembra essere avvalorata dal fatto che si prosegue dicendo che si vede il corpo dell’altra fluttuare nell’aria, che si dice di odiare i protestanti e i naviganti e chi rinnega, di odiare il freddo e il gelo, tutti elementi che sembrano non avere una correlazione fra loro, ma che appaiono giustapposti in un elenco visionario, che sembra partorito da una mente non esattamente stabile, la quale dice di odiare soprattutto il fatto di tremare.

Il verbo “tremo” diviene poi la parola chiave del proseguimento della canzone, perché viene ripetuta con un tono drammatico e sofferente dalle due voci, trascinando e modulando la sillaba finale: si va a ripetere che si odia il freddo e si odia il gelo, ma soprattutto che si odia il fatto che si tremi, con il verbo “tremo” che viene di nuovo trascinato e modulato in maniera quasi drammatica, quasi che si trattasse di una rappresentazione teatrale.

Si dice poi che l’altra persona, probabilmente la propria amata, accetterà una lunga assenza, ma che se vuole potrà rivivere le stesse emozioni che ha già vissuto, ora, oggi e pure domani, cosa che lei sa molto bene.

Lui pensa ormai che la cenere stia in sua presenza: non è chiaro se si parli di quella di una sigaretta o dei resti di una persona morta, eventualità che renderebbe il tutto molto più inquietante.

Il verso “qui da me”, che rappresenta la presenza della cenere, viene ripetuto varie volte, e nell’ultima addirittura urlato: il sottofondo musicale è prima costituito da un pianoforte integrato dal basso e dalle percussioni, e poi da un assolo di chitarra acustica, molto corposo e sostanzioso nel suo sviluppo, con pennate veloci e robuste, che vanno a creare un’atmosfera di drammaticità e pesantezza, come se una pietra si fosse abbattuta sopra il rifugio dei nostri protagonisti.

Il brano si conclude in questo modo, con la ripetizione di un verso fino alla sfinimento e con la chitarra acustica che si fa più robusta e che mette in campo delle pennate molto ravvicinate e veloci.

Siamo così arrivati all’ultima canzone del disco, “Ragioni Sociali”, che potrebbe dal titolo essere interpretata come una critica alla società e alle ragioni che stanno alla sua base e la fondano, in un gioco di contestazione di ciò che non va e di ciò che potrebbe essere migliore.

Si potrebbe anche pensare che si parli di qualcosa che sta alla base di un comportamento particolare mantenuto in società e giustificato da alcune ragioni, che regolano appunto la pacifica convivenza sociale.

Si parte con un arpeggio brillante di chitarra acustica, accompagnato da percussioni che sembrano essere dei bonghi, oltreché da una linea di basso in sottotraccia: tutta questa architettura sonora, dopo una trentina di secondi, va ad interrompersi, lasciando solamente una scia fatta da quello che appare essere uno xilofono, delicatamente accompagnato da una leggera sfumatura di chitarra acustica.

Questo breve intermezzo più soft, poi, lascia di nuovo spazio ad un sostanzioso arpeggio di chitarra acustica, che riprende quello dell’inizio, con variazioni melodiche molto interessanti, che rendono l’atmosfera molto rilassata e bucolica: su queste variazioni, va ad istallarsi il canto, che parte di gran carriera, dicendo che si pensa che senza un se non sia possibile e non sia credibile, con le parti finali dei versi che vengono trascinate per alcuni secondi, quasi a ribadirne l’importanza nella strutturazione e nell’architettura della canzone.

In questa atmosfera dalle sfumature Branduardiane, la voce prosegue dicendo che nessuno si fidava e che nessuno mai parlava ai protagonisti del brano: interessante è l’alternanza tra pieni e vuoti all’interno di questa parte di canzone, con le percussioni che prima ci sono e poi per un momento spariscono, lasciando uno spazio vuoto che viene riempito dalle parole.

Non si comunicava, però intanto ci si dava da fare in altri modi, per esempio avendo rapporti sessuali con tutte le proprie puttane: c’è poi un invito non meglio specificato a sparare, rivolto dal protagonista ad una non meglio specificata altra persona, la quale è destinata a morire, colpo su colpo.

Questa persona, definita come vagabonda, viene invitata ad unirsi al gruppo dei protagonisti del brano, così egli vivrà nello sprofondo, quasi che lo stile di vita della maggioranza dei personaggi della canzone sia non proprio consono ad una pacifica, bella e normale convivenza sociale: si accorgerà, però, che tutto migliorerà, che la sua condizione nella quotidianità subirà un salto di qualità.

Sembra quasi che qui ci sia un contrasto tra i versi precedenti e quelli successivi, perché prima si parla di vivere nello sprofondo, e poi si parla di un miglioramento della propria condizione di vita, quasi che il fatto di vivere sottotraccia, lontano dai riflettori, sprofondati in una buca, possa costituire un modo per portare la propria vita ad un livello superiore, raggiungendo una condizione di maggiore serenità e tranquillità d’animo.

La persona a cui ci si rivolge, in caso di unione con il gruppo dei protagonisti del brano, metterà sul piatto, giocherà i propri guai, e non se ne pentirà, forse perché li condividerà con altre persone e riuscirà a ricevere aiuto per esorcizzarli.

C’è poi di nuovo l’invito a sparare, con l’aggiunta che colpo su colpo questa persona poi morirà, accompagnato da un nuovo invito ad unirsi ai protagonisti della canzone, per vivere nello sprofondo.

Abbiamo poi una grossa accelerata nel ritmo del cantato, che si fa molto più serrato e rapido, con le parole che vengono scandite più rapidamente e senza pause: si parla di una condizione di quasi prigionia, del fatto di venire rinchiusi in uno spazio ristretto, senza luce e senza sete, senza nessun appiglio per chiarire una situazione che all’improvviso è divenuta infame: si dice decisamente no alla guerra e no alla fame, e la canzone diventa improvvisamente di denuncia sociale, con le cellule celebrali ammutolite da una calma apparente che inganna.

La canzone si conclude in questo modo, con una sorta di urlo del cantante, che ripete la vocale “a” in modo lacerante e sofferente, accompagnato da pennate di chitarra acustica che si fanno forti e prepotenti e che si interrompono improvvisamente, per richiamare la conclusione del brano.

Alla fine, abbiamo un disco pop rock ben articolato e strutturato, con dei testi il più delle volte ermetici, che si prestano a svariate interpretazioni, o che a volte non hanno nessuna interpretazione possibile, se non si conosce il contesto in cui sono stati scritti.

La produzione di questa fatica discografica è discreta, perché il suono è abbastanza pulito e le voci abbastanza chiare e definite: ci sono solo alcuni passaggi nei quali la definizione del tutto potrebbe essere migliorata, ma nel complesso prevale la buona produzione.

L’album mostra diversi stili sonori e di cantato, ed è questa varietà che lo rende molto interessante e allo stesso tempo molto sfidante per l’ascoltatore, che, mentre è impegnato a capire le diverse dinamiche sonore che caratterizzano l’opera, deve anche comprendere in qualche modo il significato dei testi.

Dato che si tratta di uno dei primi album delle Metamorfosi in Viola, si rivela essere un disco un po’ grezzo, un po’ acerbo, nel quale alcuni particolari risentono in modo abbastanza significativo della giovinezza della band, la quale poi si è fatta le ossa ed è arrivata a proporre dischi più maturi e ricercati, anche se in questo particolare album si cerca di trovare una sorta di ricercatezza sonora e dei versi, che non sempre riesce favorevole per l’ascoltatore inesperto, il quale si trova a ricercare dei significati a dei versi che di primo acchito gli risultano incomprensibili, quasi slegati fra loro.

Secondo me, le Metamorfosi in Viola sono un buon progetto, che mostra di sapersi destreggiare con diversi strumenti, quali la chitarra, il basso, le tastiere, i bonghi e il pianoforte, e di saper comporre dei versi ermetici che all’apparenza non sembrano aver nulla a che fare con i titoli delle canzoni.

Bisogna poi aggiungere che la durata dell’album è piuttosto estesa, nonostante si tratti di sole sei canzoni, e che quindi arrivare alla fine richiede anche una certa forza di volontà, dettata dalla passione per ciò che si sta ascoltando e dal fatto che tutto questo riesce comunque ad insinuarsi nella testa, nella mente e nel cuore.

Ringrazio quindi le Metamorfosi in Viola per avermi fatto di nuovo rivivere un’esperienza da favola, con il loro ensemble di strumenti e sonorità e la loro complessità dei testi: sono dischi questi che sfidano, che mettono alla prova, perché arrivare alla fine dell’ascolto significa essere persone forti e di carattere, che non si lasciano scoraggiare dalle prime difficoltà di comprensione.

Devo dire che l’album mi è complessivamente piaciuto, anche se lo giudico un gradino sotto rispetto all’altro disco del gruppo che mi è passato sotto le mani e che ho recensito tempo fa.

Il tutto fa parte comunque di un processo di evoluzione verso la perfezione che tutte le band intraprendono, anche se secondo me la perfezione non esiste, ma esistono solo dei dischi che si avvicinano ad essa, e vengono quindi considerati come dei capolavori.

In questo caso, siamo su di un discreto livello, legato soprattutto alla giovinezza artistica della band quando ha composto l’album: si può sempre migliorare ed evolversi, e le Metamorfosi in Viola sono qui a dimostracelo.

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