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Fenice – Giordano Amici

Una canzone dalle molteplici sfaccettature, quella di Giordano Amici, che parla della fine di un amore che pareva solidissimo e della rinascita del nostro protagonista, come l’Araba Fenice fa dalle proprie ceneri.

Un brano che parla dunque di forza interiore, di ferma volontà, di capacità di prendere ciò sembra brutto e distruttivo e trasformarlo in qualcosa di rifondativo, dal quale ripartire, per farsi una nuova vita e crearsi una nuova esistenza, con la consapevolezza che i momenti belli passati insieme non scompariranno mai e potranno sempre essere ricordati e portati con sé, come un bagaglio di esperienze in grado di fortificare e rendere meglio disposti a ricominciare.

Il brano parte molto dolcemente e soavemente, con le note delicate di un pianoforte che sembra suonare una nenia, una ninna nanna, con in sottofondo i rumori di un temporale, con i suoi lampi e i suoi tuoni: già da questi elementi si può capire che la canzone parlerà in qualche modo di contrasti, tra il bello di una relazione che sembrava inossidabile e il brutto della sua fine inaspettata, brutto che fa però da base ad un nuovo bello, rappresentato dalla rinascita di Giordano, che raccoglie le proprie ceneri, le riunisce e le utilizza come base per ritrovare la propria integrità e la propria voglia di rivivere serenamente.

Questa intro dura una quindicina di secondi, e su di essa si istalla poi la voce pacata e altrettanto soave del nostro cantautore, che in alcuni momenti sembra sussurrare le parole, raccontando una storia quasi sottovoce, come se non volesse disturbare troppo, ma conciliare invece la serenità di chi ascolta, avvolgendolo e cullandolo in questa prima parte di brano.

Il nostro autore comincia a cantare dicendo che ci sono cose che non finiscono, che se si volta indietro si rivede felice con la propria lei, a formare una coppia affiatata ed indissolubile, che non subisce le insidie del tempo e la sua usura: ripensa poi alle serate passate chiusi in macchina al freddo, pensiero che sembra interrompere l’immagine idilliaca dell’inizio, perché si parla di due persone che si sputano addosso del veleno vicendevolmente, cosa che non aiuta di certo un rapporto.

In questa parte, entra in gioco la chitarra acustica, che si sostituisce al pianoforte, andando ad irrobustire la linea melodica e a creare il primo momento di varietà all’interno del pezzo: la vocalità appare qui sempre un po’ “strascicata”, nel senso che le parti finali delle parole conclusive di ogni verso vengono trascinate per qualche secondo, oltreché un po’ sommessa, quasi che in apparenza il nostro Giordano non sia capace di dare sostanza a ciò che canta, restando all’interno di un’aura di dolcezza disincantata e di arrendevole “avvolgimento” dei sensi.

Vedremo più avanti che il nostro cantautore sarà capace di cambiare registro e di dare potenza e profondità alla propria vocalità, creando un evidente contrasto con quanto cantato in precedenza.

Abbiamo poi una piccola pausa che interrompe in maniera infinitesimale il flusso della canzone, che riprende comunque da subito con le note della chitarra acustica e la voce “cullante”: il nostro protagonista fa ora riferimento al rosso del viso della propria lei, diventato forse paonazzo a causa della rabbia, che si trasforma nel rosso del sangue perso da lui.

Si riscontra qui l’ingresso di un altro strumento, cioè della batteria, che fa anch’essa da lieve ed elementare accompagnamento al cantato, dando però ulteriore forza alla base melodica e ritmica, con una voce che inizia a dimostrare una maggiore grinta.

Il sangue è stato metaforicamente perso dal nostro Giordano perché si immaginava un finale probabilmente diverso da quello che è stato: mi preme sottolineare la consistenza della vocalità che viene impressa nel cantare la parola “diverso”, come se le due anime del nostro artista si sovrapponessero per un attimo, l’anima dolce e suadente dall’inizio e quella più grintosa e struggente che ha iniziato a mostrare nel prosieguo della canzone.

Ora la vocalità è realmente consistente e forte, e Giordano dà prova di essere capace di esprimere ruvidezza e capacità interpretative: parte quindi quello che sembra essere il ritornello del brano, nel quale si dice che, come accade per gli eroi di un film, l’amore fra lui e la propria ragazza appare essere come un superpotere, quindi qualcosa di estremamente potente e quasi sovrumano.

Esso è costituito da sguardi complici e promesse di eterno: è evidente che, anche se il tempo verbale è al presente, il tutto si riferisce a qualcosa di passato, visto che la storia è terminata; è come se il nostro Giordano non volesse ammettere questo fatto e continui a sentire su di sé il potere e la forza di questo rapporto, elementi che lo aiutano a risorgere dalle proprie ceneri.

Il profumo e il sapore del mare si mischiano al sapore della sua ragazza, forse nel ricordo dei dolci momenti trascorsi sulla sabbia in riva al mare: questo mi ha ricordato un po’ alcuni versi della canzone “Sapore di Sale” di Gino Paoli, in cui si parlava di “un gusto un po’ amaro di cose perdute, di cose lasciate lontano da noi”; si potrebbe fare un’analogia con la situazione del nostro autore e protagonista, che sente ancora sulle labbra un sapore di donna e di mare che appartiene a felici momenti del passato.

A questo punto, il brano subisce un ulteriore momento di pausa, nel quale per alcuni secondi si ferma tutto, dopo che le ultime parole di Gianpaolo sono andate sfumando: si riprende con un giro di batteria, che introduce un’altra parte di canzone, nella quale la stessa batteria, con un ritmo regolare e puntuale, fa da contrappunto agli accordi della chitarra acustica.

Il nostro cantautore comincia a parlare dei sogni che faceva quando era ancora insieme alle propria lei: la immaginava vestita da sposa, vestita di bianco, come il sorriso di un figlio; qui si può capire che la voglia di famiglia di Gianpaolo era molto forte, e che lui stesso si era già immaginato una vita da trascorrere eternamente insieme alla propria lei.

Qui il tempo verbale è al passato, segno che l’autore ritiene questi elementi delle cose che non potranno più succedere, data la conclusione del rapporto.

Il nostro protagonista immagina poi che loro due avrebbero potuto scegliere assieme il nome del figlio, dopo aver fatto l’amore: in questa ultima sezione di canzone la vocalità di fa più struggente e malinconica, olteché più acuta e forte, forse per dimostrare la forza che avevano tutte queste idee mentali nella testa di Gianpaolo.

Si prosegue poi parlando della gente che gira intorno al nostro cantautore, gente che nemmeno può immaginare secondo lui quante volte lui stesso sia morto dentro: quest’ultima parola è di nuovo fortemente sottolineata dal cantato, probabilmente perché ritenuta dall’autore una delle chiavi del discorso e della storia che sta narrando.

Il beat poi si ferma, così come la chitarra acustica, per lasciare spazio al crepitare del fuoco: Gianpaolo dice che si trova a reinventare la propria vita fermo in strada e che questa non è follia, perché lui rilascerà le ceneri e rinascerà Fenice; mi sembra interessante l’abbinamento fra questi versi e il suono del fuoco che arde, perché rende bene l’idea di qualcosa che brucia, ma che poi rinasce dalle proprie ceneri.

Viene in particolare ripetuta e sottolineata la parola “Fenice”, centro focale del brano, e successivamente il nostro cantautore sembra raccogliere le forze e le energie vocali per tornare a cantare ciò che per lui l’amore per la sua donna è ancora, nonostante la conclusione del rapporto: come accade per gli eroi dentro in un film, il loro amore è un superpotere, che va al di là dell’umano e della umana comprensione, fatto com’è di sguardi complici e promesse di eterno, come è eterno il sapore del mare mischiato al sapore di lei.

Questo ritornello è ripetuto poi una seconda volta, con voce stentorea e potente, una voce che dà credibilità al tutto e rende appassionante e coinvolgente l’ascolto di questa parte: gli sguardi sono complici e le promesse sono di eterno, come eterno è il sapore del mare mischiato al sapore di lei; la conclusione del brano, con questi ultimi versi, è piuttosto particolare, perché il verso “sapore di te” è cantato in un simil falsetto che stupisce piacevolmente, perché Gianpaolo mostra di avere delle capacità vocali che non erano emerse dall’ascolto della primissima parte della canzone.

Si può dire che il tono della voce del nostro cantautore assuma consistenza mentre il brano si sviluppa: più importanti sono le parti da cantare, maggiori sono le capacità vocali che vengono mostrate, in un crescendo quasi Rossiniano  che ci fa dire “Ah, ma allora la voce ce l’ha, doveva solo tirarla fuori”.

Fanno da sfondo alla conclusione del brano i rumori del temporale, elemento che sembra chiudere il cerchio, perché richiama l’inizio della canzone stessa: si può affermare che, come è iniziata, si è conclusa.

Devo ammettere che mi piace questo tipo di circolarità, questo richiamo finale degli elementi sonori di apertura della canzone, perché dimostra secondo me un’intelligenza compositiva molto sviluppata: certe volte non si sa come concludere un brano, e allora ci viene in aiuto il richiamo agli elementi che avevano aperto la canzone stessa, in un loop circolare che si dimostra essere particolarmente efficace e interessante, perché porta a dire “Però, se non mi ricordo male il brano si era aperto con queste sonorità, che bello risentirle nel finale”.

Alla fine ci resta un buon brano pop rock, che fa come detto della circolarità la propria cifra stilistica e racconta una storia allo stesso tempo molto personale e molto condivisibile, perché a ciascuno di noi può essere capitato di essere costretti a ricominciare tutto da capo, dopo la fine di una relazione.

Il cantato, come detto, assume forza e vigore mentre il brano si sviluppa, e Gianpaolo mostra progressivamente di possedere delle capacità vocali che, ascoltando l’inizio della canzone, non si credevano possibili: il tono è prima dolce, suadente e fin troppo sommesso, sussurrato, ma poi si irrobustisce progressivamente, fino a raggiungere il culmine con il falsetto finale, che rappresenta la classica ciliegina sulla torta.

Come detto, ho sempre ammirato gli artisti che sono stati capaci di mettere le proprie esperienze di vita in musica, all’interno delle proprie canzoni, perché secondo me non è assolutamente facile condividere con gli altri ciò che ci ha feriti, ma allo stesso tempo questa condivisione è catartica, perché libera il nostro animo da un peso che gravava su di esso e che lo soffocava.

La produzione del pezzo mi è sembrata buona, con delle sonorità anche ambientali, oltre a quelle classiche del pop rock, come i rumori del temporale, che mi hanno riportato per un attimo alla canzone dei Doors “Riders on the Storm”, che inizia con il rumore dei tuoni e della pioggia.

Se posso dare un consiglio al nostro Gianpaolo, gli dico che dovrebbe sempre cantare sulla tonalità con cui ha cantato la seconda parte della canzone, quella con i ritornelli, perché la sua vocalità guadagna tanto se impostata su tonalità più alte e forti: questo non vuol dire che non debba più cantare come ha fatto all’inizio di questo brano, ma solamente che la sua voce assume una nuova e sorprendente consistenza quando esprime tutta la propria rabbia e tutto il proprio desiderio.

Siamo quindi di fronte ad una canzone completa, ricca di toni diversi e di stili diversi, quindi piuttosto varia e non monocorde: la varietà è uno degli elementi che più apprezzo all’interno del processo compositivo di un cantautore, perché riesce costantemente a sorprendere l’ascoltatore, mantenendo desta la sua attenzione, non annoiandolo e costringendolo ad ascoltare il brano dall’inizio alla fine; io mi sono trovato spesso a dire, mentre ascoltavo la canzone, “Toh, è cambiata di nuovo, interessante”.

Faccio quindi i miei complimenti a Gianpaolo per essere riuscito ad esprimere nella canzone una parte di sé che lo avrebbe distrutto se fosse stata tenuta dentro: la condivisione con gli altri delle proprie esperienze, oltre ad essere un atto di coraggio, si rivela molto spesso piuttosto utile alla causa, liberando mente e cuore dai pensieri che li opprimono.

 

 

 

 

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