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Dream Gone – Metamorfosi in Viola

Devo ammettere che, quando ho letto il nome del gruppo che ha composto questo LP mi è venuto subito alla mente il celebre libro di Frank Kafka “La Metamorfosi”, dove il protagonista Gregor Samsa si ritrova tramutato in insetto: chissà se, ne cercare un nome per il suo progetto, il leader Simone Osmari ha pensato proprio a quest’opera letteraria, per fornire un riferimento colto all’ascoltatore, e per comunicargli che qui si fa veramente sul serio. Il viola, di solito, è il colore del lutto, e questo mi ha dato da pensare, perché questo processo di trasformazione appare avvenire sotto l’egida di una malinconia e di un senso di tristezza celati sotto appunto il colore viola: una metamorfosi che non sembra quindi essere avulsa da un senso di tragedia, di lutto.

In riferimento a ciò che ho detto prima, ho pensato anche ad uno dei dischi più celebri degli AC/DC, composto immediatamente dopo la morte del cantante Bon Scott: “Back in Black”, infatti, è stato un album commemorativo dello stesso Bon Scott, morto in circostanze tragiche, che ha spinto la band a comunicare il proprio “ritorno in nero”, come se si fosse  trasformata, per quel singolo disco, in una formazione in lutto per la scomparsa dell’amico e del compagno di bisbocce.

Anche gli AC/DC, dunque, hanno subito una sorta di metamorfosi all’interno di quell’album, trasformandosi in un insieme di artisti vestiti a lutto, che celebravano in musica il proprio compagno scomparso.

Ho poi letto il titolo dell’LP, “Dream Gone”, e questo mi ha fatto pensare ad un verso della bellissima canzone dei Pink Floyd “Confortably Numb”, in cui si diceva “The Dream is Gone”, come a sottolineare che i sogni che avevano nutrito la fanciullezza erano ormai scomparsi con l’arrivo dell’età adulta.

Chissà se esiste un legame tra il colore viola, tipico appunto del lutto, con il fatto che il proprio sogno sembri essere volato via, con il fatto che ciò che si sognava non si è tramutato in realtà, lasciando quindi un senso di vuoto e di impotenza, simile a quello che si prova quando scompare una persona cara.

Dopo queste dissertazioni “filosofiche”, possiamo parlare della sostanza dell’LP, che appare essere molto solido, ben prodotto, ben cantato e ben suonato, cavalcando l’onda di stili diversi, dal rock al funk, con una spruzzata di heavy metal, stili eseguiti con una strumentazione non alterata dai sintetizzatori, proprio per dare all’ascoltatore l’idea di trovarsi ad una delle centinaia di esibizioni del gruppo, senza filtri e in modo diretto, spontaneo.

Si capisce, nel corso dell’ascolto, che i Metamorfosi in Viola fanno davvero sul serio, dispiegando tutto il loro potenziale in sei tracce piene di significato, che vanno a toccare come detto diversi ambiti musicali, sempre con un certo gusto per l’estetica e per le cose ben fatte.

Passando alle singole canzoni, incontriamo “Anger Time”, il cui titolo mi ha riportato alla mente la canzone più celebre del supergruppo Temple Of The Dog”, formato dai componenti dei Soundgarden e dai futuri componenti dei Pearl Jam, “Anger Strike”: in entrambi i brani sembra esplicarsi un senso d’ira, di rabbia, che viene sfogato attraverso la musica e le parole.

Si parla di un rapporto amoroso nel quale la figura femminile rappresenta tutto il mondo conosciuto da quella maschile, che vorrebbe amarla nel modo in cui lei vuole, cosa che a volte gli risulta molto difficile. Lui ha deciso che amerà la sua essenza e dice di aver perso il proprio cuore nel fiume della sua anima: lei rappresenta tutto e non lo sa, e il mondo sovrasta lui silenziosamente, aspettando che lei capisca ciò che si rivela di difficile comprensione a proposito di lui.

La canzone si apre con una lunga introduzione di pianoforte, di circa 30 secondi, che mi ha riportato ad alcuni brani degli Evanescence, band metal che ama utilizzare il pianoforte stesso all’interno delle proprie composizioni, grazie al fatto che la cantante Amy Lee lo sa suonare egregiamente. Mi è venuto in mente anche Zakk Wylde, il quale, oltre a suonare la chitarra in stile puramente heavy metal, si diletta anche al pianoforte con buoni risultati, basti pensare alla canzone “In This River”.

Questa introduzione trasmette sia un senso di dolcezza che un senso di malinconia, quasi che ci si trovasse di fronte ad un carillon aperto con la sua piccola danzatrice che ruota su sé stessa.

Abbiamo poi un passaggio ancora un volta strumentale, perché il pianoforte lascia spazio alla chitarra acustica accompagnata da strumenti ad arco: il loro abbinamento conferisce un senso di serenità al pezzo, quasi che ci si trovasse all’interno di una radura di un bosco, nella quale scorre un fiumiciattolo limpido e trasparente. In questo passaggio, la linea melodica assume consistenza, si irrobustisce e appesantisce, prendendo consistenza e spessore.

L’introduzione va poi sfumando, e si ha l’esplosione di quella che sarà poi la linea melodica dominante, con una chitarra elettrica che la fa da padrone con i suoi robusti accordi, accompagnata del suono ritmico di quello che sembra essere un triangolo e di nuovo da alcuni strumenti ad arco, che delineano una direzione e una storia ben precise: sembra di trovarsi all’interno della colonna sonora di un film di avventura, con i protagonisti che esplorano il mondo e finalmente giungono a trovare il proprio tesoro.

Parte poi il cantato, che viene accompagnato sia dal presunto triangolo che dalla chitarra elettrica, creando un effetto simile a quello che si può ritrovare in alcune canzoni dei primi Muse, quelli meno influenzati dall’elettronica: le percussioni si fanno via via più preponderanti e consistenti, con una vocalità intensa e avvolgente, che fa pensare anche a quella di Tom Yorke, leader dei Radiohead, essendo tra l’altro anche, se si può dire così, “intensamente sussurrata”, in grado di creare forti suggestioni e una serie di immagini mentali molto oniriche e sognanti.

Come la base ritmica e la melodia, anche la vocalità assume maggiore drammaticità man mano che si procede con il pezzo, diventando sempre più struggente e a tratti quasi sofferente, trascinando verso l’alto la parte finale di alcuni versi, in un canto ascendente molto particolare e leggermente spiazzante.

Questo florilegio di musica e cantato subisce poi una parziale battuta d’arresto, e si torna all’accompagnamento del triangolo, con una linea melodica di chitarra che comincia a graffiare, creando degli echi e dei riverberi molto evidenti, con accordi singoli che vengono sostenuti da un eco di chitarra acustica appena accennato.

Ma la linea di chitarra elettrica e la vocalità in questo pezzo non possono perdere per tanto tempo la loro consistenza, e nel giro di pochi secondi tornano ad essere pesanti e avvolgenti, in un crescendo di intensità che riporta l’ascoltatore alle atmosfere più vicine all’alternative rock sperimentate dai già citati Muse e Radiohead all’inizio delle loro carriere.

La voce, in particolare, va rimarcata e sottolineata, perché assume dei toni sofferenti e struggenti che rapiscono chi ascolta, trasportandolo in un’atmosfera molto particolare e densa, dallo spessore accentuato e dalla forza onirica travolgente.

Questa parte, che oserei definire come il centro focale della canzone, poi va spegnendosi, lasciando ancora una volta il campo alle note del pianoforte, in un ideale ricongiungimento circolare con l’inizio del brano, che si conclude in questo modo, con un accordo finale appunto di pianoforte, sulla tonalità che ha caratterizzato tutta la canzone.

Abbiamo poi il pezzo “Body In Motion”, che già dal titolo suggerisce un’idea di mobilità e attività, di un “corpo in movimento”: la canzone inizia quindi in modo particolarmente deciso, con una chitarra elettrica che la fa da padrona, con accordi fragorosi e potenti, che mi hanno fatto pensare agli ZZ Top che hanno incontrato sul loro percorso i Tool, creando accordi allo stesso tempo molto “cool” e consistenti, in una ripetizione quasi ossessiva di una combinazione degli accordi stessi, che va a creare un sensazione di attesa e sospensione, quasi nell’aspettativa che accada qualcosa. Potremmo definire questa parte di brano come “hard country” o “hard rock”, proprio per la combinazione di sonorità on the road con sonorità consistenti e possenti.

Le percussioni usano molto i piatti e si sente distintamente in alcuni punti la profonda linea di basso: questa prima parte si blocca improvvisamente, annunciando che l’attesa è terminata, e lasciando spazio ad una nuova sezione del pezzo più tipicamente funky, con la chitarra e il basso che dialogano con la batteria in una serie di vuoti e pieni che conferisce al tutto un’impronta alla Red Hot Chili Peppers, perché sembra proprio di sentire le combinazioni sonore che caratterizzano i dialoghi melodici tra Flea e John Frusciante, magari lievemente più appesantiti, più “hard” se così si può dire. La componente “simil Tool” secondo me torna ancora a far capolino quindi, dando un’impronta massiccia e granitica agli accordi di chitarra.

In tutto ciò, comincia ad innestarsi la voce, che da subito assume dei toni piuttosto ammiccanti e, per così dire, “lascivi”, sensuali, attraenti: dopo un attimo di sospensione, si passa ad una parte di canzone con accordi che si legano tra loro, creando quindi continuità e abbandonando la “metrica” precedente dei pieni e vuoti.

Anche la vocalità si adegua, diventando un unicum potente e sfrenato, che urla quasi il proprio stato d’animo al mondo intero e sembra non finire mai di gridare.

Quest’urlo ha invece una fine, perché la sua parte terminale viene trascinata per alcuni secondi in un ultimo grido struggente e quasi disperato, con il sottofondo musicale che riprende ad essere funky.

La combinazione ritorna ad essere quella fra una voce ammiccante e un sottofondo alla Red Hot che si scontrano con i Tool, e questa a mio parere è la parte più trascinante e interessante del brano, perché è impossibile, come dice il titolo, non muovere il corpo al ritmo di questa sezione molto ben congegnata e ballabile, che sembra in grado di conferire all’ascoltatore una forte carica e grande energia.

Dopo un brevissimo momento di pausa, i suoni ritornano a legarsi fra loro, e la linea melodica si aggrega di nuovo in un unicum, che fa da sottofondo ad una voce che diventa di nuovo estremamente energica e potente: il riff è veramente accattivante e riesce dal primo ascolto a stamparsi indelebilmente nella memoria dell’ascoltatore, essendo molto hard rock e riportando alla mente, senza fare paragoni dissacranti, quello di certi Deep Purple.

A tutto ciò fa da seguito un’ulteriore parte, che mescola tra loro accordi di chitarra elettrica a sonorità di tastiere, creando una sezione di stacco, dopo la potenza espressa fino a quel momento.

Questa sezione fa da preludio all’assolo finale di chitarra elettrica, il cui suono appare un po’ effettato, perché piuttosto acuto, quasi simile a quello di una sirena, accompagnato da dei vocalizzi brevi e concisi.

L’assolo si fa da parte, lasciando che siano le tastiere a concludere del tutto la canzone, in modo quasi sorprendente e inaspettato.

Si parla di un corpo che si muove lentamente contraendosi, aggiungendo in modo figurato che il sapore delle membrane perde progressivamente valore, come se questo corpo perdesse lentamente consistenza, con la parte femminile del rapporto concretamente presente: il senso figurativo del brano prosegue con l’affermazione che lui vorrebbe uccidere il sangue che lei gli fa bere in un calice “amaro”, che vorrebbe combattere il tempo che vuole far del male a loro due. Il corpo è pieno di sudore e malato, distrutto dal contatto con le persone che lo circondano, dal contatto con la civiltà.

“Convex Skulls”, il cui titolo fa riferimento a dei “teschi convessi”, dando una peculiare caratterizzazione di mistero al tutto, si avvia con delle schitarrate feroci e violente, molto grezze, che grattano la superficie dell’anima: c’è poi una parte nella quale la chitarra si sposta per fare da accompagnamento più soft e arpeggiato alla voce, che ha la particolarità di essere femminile, con una tonalità che ricorda in qualche modo e da lontano quella di Carmen Consoli, quasi che la cantantessa nostrana si fosse messa a cantare in inglese.

La chitarra è arpeggiata, e le percussioni sono piuttosto ritmate: l’atmosfera generale ha richiamato alla mia mente certe canzoni dei No Doubt di Gwen Stefani, ma anche i brani maggiormente soft dei Lacuna Coil di Cristina Scabbia.

La canzone assume quasi i toni di una ballata sensuale e ammiccante, con la voce femminile che stuzzica e rapisce la mente, avvolgendola in un caldo abbraccio: abbiamo diversi strumenti in gioco, una chitarra elettrica che fa da contrappunto, un’altra chitarra elettrica che arpeggia, un basso consistente che fa da base ritmica senza mai fermarsi, creando a sua volta una storia.

La chitarra poi diventa un’unica entità, che sprizza rugosità da tutti i pori, e la voce si adegua, diventando più struggente e disperata: qui sembra davvero a mio parere che Cristina Scabbia e Carmen Consoli si siano fuse in un’unica cantante.

Dopo questo picco vocale, si ritorna sulle note iniziali, con la chitarra elettrica che esegue accordi graffianti e separati tra loro e il basso che fa sentire molto la propria presenza: si va ad aggiungere poi una linea di chitarra elettrica di nuovo arpeggiata, che fa da preludio al ritorno della vocalità femminile ammiccante e sensuale.

Tutta la canzone appare pervasa da un senso di circolarità, perché a quella che sembra essere la strofa fa da seguito quello che appare essere il ritornello, in uno scambio di colpi infinito e stuzzicante: il suono della chitarra si fa più completo e unico, e la voce sembra urlare tutto il proprio essere, gettando il cuore oltre l’ostacolo.

Parte poi un assolo di chitarra, con la voce che fa da sottofondo attraverso alcuni accenni che ripetono i versi più importanti della canzone: la vocalità trova il suo compimento in un urlo prolungato e disperato, che copre alcuni secondi dell’assolo, il quale assume progressivamente dei contorni hard rock e quasi heavy metal, portando a compimento lo sviluppo della canzone e arrivando a concludersi quasi di botto, con uno stacco finale imperioso.

“Nasty Girl” potrebbe essere quasi il titolo di una canzone dei lascivi e sporchi Rolling Stones, ma in realtà si apre sulle note di una chitarra acustica, quasi flamenca, accompagnate da dei vocalizzi che appaiono essere femminili, a cui si aggiungono le note staccate di un pianoforte.

Dopo alcuni secondi di introduzione, emerge la voce, che appare diversa da quelle ascoltate in precedenza e che va a conciliare due elementi apparentemente inconciliabili, cioè la profondità quasi baritonale e il falsetto: sembra quasi che un baritono o un basso stiano tentando di cantare in falsetto, sulla scia di quanto fatto da Matthew Bellamy dei Muse.

La canzone, dopo uno stacco infinitesimale, assume un ritmo più sincopato, sia attraverso la chitarra acustica che attraverso l’inserimento di un pianoforte, che esegue una linea melodica dal ritmo irregolare, che va avanti e poi ritorna indietro sui propri passi: la voce assume toni drammatici e struggenti, quasi che ci fosse un Jeff Buckley a cantare la sua “Grace”, affermando in modo distaccato che a lui alla fine non interessa quello che sta accadendo e ripetendolo varie volte.

La canzone assume poi dei toni quasi gospel, con la voce principale che viene accompagnata da altre che fanno da coro, e con la sola presenza della chitarra acustica: questi toni coprono alcuni secondi, poi il tutto ritorna com’era all’inizio, con il pianoforte e la chitarra che agiscono assieme e la voce che assume toni quasi disperati.

Il brano sembra trattare di un rapporto amoroso molto difficile, con la parte femminile che contrasta tutti i tentativi di quella maschile di venirle incontro, con lei che spende tutti i soldi di lui e si crede grande, mentre per il protagonista maschile non è in realtà nulla: lui si dichiara stanco di come le cose stanno andando e minaccia di non far proseguire oltre il loro matrimonio, di andarsene per farle capire il male che gli sta facendo.

Il protagonista della canzone sembra dunque quasi arrendersi all’evidenza di avere di fronte una “cattiva ragazza”, e lo ripete: iniziano poi dei vocalizzi, su una base sempre di chitarra acustica e a tratti di pianoforte, vocalizzi che vanno a concludere il pezzo, in una sequenza che perde progressivamente il pianoforte, poi la voce, lasciando come ultimo strumento la chitarra acustica, che porta a compimento la canzone con un accordo finale che mette d’accordo tutti.

“Welcome To Heaven” appare essere una canzone il cui titolo rievoca la ben più famosa “Stairway To Heaven” dei Led Zeppelin, e i toni iniziali sembrano essere sognanti, dato che abbiamo un pianoforte in bella evidenza, che suona una melodia in maggiore, molto stimolante e apparentemente allegra e spensierata, un basso che fa da accompagnamento ritmico cercando di raggiungere la stessa lunghezza d’onda e delle percussioni molto ben definite e lineari.

Parte poi la linea vocale, e degli strumenti prima elencati, resta solamente il pianoforte, che esegue degli accordi staccati fra loro e ben distanziati: la voce femminile appare essere la stessa che ha cantato l’altra canzone.

Successivamente, per mantenere una certa varietà all’interno del brano, ritornano ad essere presenti il pianoforte di sottofondo, che stavolta esegue degli arpeggi e la batteria, con sonorità ancora ben delineate e definite, oltre al basso che fa da accompagnamento discreto.

Questa combinazione dura per tutta la parte centrale della canzone, caratterizzandone fortemente il mood, anche se per alcuni secondi la voce si ferma, per lasciare spazio agli strumenti.

La linea vocale, però riprende da subito il suo corso, accompagnata, secondo un ritmo maggiormente rallentato, dai tre strumenti rock fondamentali, cioè chitarra, basso e batteria, ai quali si va poi ad aggiungere un tocco di pianoforte: questa ripresa è caratterizzata da tonalità più alte rispetto a quelle precedenti, con una voce che si fa più squillante ed energica, con spunti molto vigorosi verso l’alto. Successivamente a questi spunti, la vocalità torna ad essere quella di prima, e dà il suo “benvenuto in Paradiso”: si aggiunge un sottofondo creato da un assolo di chitarra elettrica piuttosto veloce e ritmato.

Il brano poi si avvia alla sua naturale conclusione, con la sola voce accompagnata da un dolce pianoforte, che infine la lascia libera di definire un termine, abbassandosi di tono e silenziandosi progressivamente, con le ultime parole cantate quasi sottovoce.

La canzone è una dedica a Chris Cornell, cantante dalla grande voce scomparso tragicamente: si dice che una nuova stella luminosa sia apparsa in cielo, una stella che brilla più del sole, e che Chris cavalca un grande cavallo bianco, libero da ogni costrizione; non c’è stata una vera morte, perché lui adesso è l’angelo guardiano del nostro protagonista.

Le braccia di Dio in Paradiso sono aperte, Lui l’ha chiamato troppo presto, in un luogo in cui le anime si amano vicendevolmente senza barriere di sorta: la vita è un dono che nessuno ha chiesto, ma che tutti desiderano, e Chris è apparso in sogno al protagonista del brano dicendogli che voleva vivere, non solo per lui, ma per aiutare un’intera generazione.

Abbiamo poi quello che sembra un forte atto d’accusa, una canzone dal titolo “You’re A Coward And A Fucking Drug Dealer Too”, titolo che mi ha richiamato un po’ alla mente quello che gli Steppenwolf affermavano in una delle loro più celebri canzoni, “The Pusher”, brano dedicato al fenomeno della droga e a tutte le sue implicazioni nefaste.

Il brano parte molto deciso: dopo un piccolo timing di indirizzo da parte della batteria, abbiamo una chitarra elettrica molto potente e decisa, che esegue degli accordi pieni e ricchi, in una sequenza che si ripete, diventando poi lineare e avvicinandosi ad un punto di sospensione.

C’è quindi una voce che sembra filtrata da un megafono e che viene accompagnata solo da basso e batteria, sulla scia di quanto fatto, sempre dai Muse, nella cover del pezzo “Feelin’ Good”.

La vocalità sembra quasi quella di un bardo medievale che fa un annuncio alla popolazione, indicando un condannato a morte e parlando della sua esecuzione: sembra poi di udire dei “lalalala”, vocalizzi che fanno da congiunzione tra questa parte quasi parlata e la successiva, cantata in modo struggente e accompagnata da una robusta chitarra elettrica.

C’è un punto in cui viene ripetuta più volte la parola “incredibilmente”, con le percussioni che fanno da sottofondo attraverso un ritmo sincopato e staccato: la voce è sempre più decisa e altisonante, e anche l’accompagnamento non è da meno, creando una sequenza sonora e cantata molto interessante per la sua varietà, con stacchi, riprese, sequenze di accordi molto hard rock, una batteria fantasiosa e mai uguale a sé stessa.

Ci sono poi alcuni secondi solamente strumentali, che dimostrano quanta varietà sonora possa essere contenuta in uno strumento come la chitarra elettrica: successivamente, la voce torna a farsi sentire, parlando della propria musica, che appare essere come una Musa per gli altri. Il tono è molto deciso, forte e possente: questa sequenza viene chiusa da un doppio giro di accordi di chitarra elettrica, che esplicano tutte le potenzialità insite nello strumento e danno un’aria celebrativa alla canzone.

Questa alternanza tra vocalità ed accordi si ripete per tutta la parte finale del brano, nella quale il suono della chitarra elettrica si fa più sincopato e va ad intercambiarsi con la voce, creando un effetto molto interessante, con la voce stessa che ribadisce un concetto e la chitarra che va a sottolinearlo con i suoi accordi ripetuti.

Un brano del genere non poteva non concludersi con un accordo di chitarra elettrica, stentoreo e definitivo.

La canzone parla di un codardo che non è nemmeno un buon spacciatore, ma solo un traditore, vuoto dentro, senza una morale, senza valori e senza libertà. C’è comunque attorno a questa figura molta gente che continua a perdonarlo, e questa cosa appare incredibile, come si diceva prima: la musica non viene mai considerata come una colpa delle persone, ma come detto la musica del nostro protagonista conquista il ruolo di Musa per questo codardo, che viene ironicamente più volte ringraziato per aver fottuto e tradito gli altri.

Alla fine, come detto, ci resta un disco molto ben costruito e prodotto, che ha in sé una varietà di stili e stilemi infinita, e che passa con disinvoltura dagli assoli di pianoforte a quelli di chitarra, da una voce struggente ad una vocalità grintosa e assertiva, da un rock più leggero ad un hard rock che sfiora l’heavy metal.

Troviamo molti ingredienti che rendono la pietanza interessante, e molto buona da gustare e assaporare lentamente: le Metamorfosi In Viola dimostrano di avere grandi capacità sia a livello di scrittura dei testi che a livello di composizione delle parti sonore, utilizzando tutta la gamma di strumenti disponibile, che siano chitarre, bassi, batterie, pianoforti e archi.

Questo è un album che merita di essere ascoltato, per la varietà di soluzioni che propone e per la granitica solidità della sua struttura: in sole sei canzoni, viene condensata una forza che alcuni gruppi non riescono ad esprimere nemmeno in dieci o undici brani, e qui sta secondo me la vera preziosità di un disco come “Dream Gone”.

Il sogno sarà anche volato via, ma resta intatta la capacità di far sognare dell’album, che con i suoi tratti onirici è in grado di trasportare l’ascoltatore su mondi sempre diversi ed esaltanti, ma anche pieni di senso di rivolta e rivalsa.

Faccio quindi i miei complimenti al gruppo e lo invito a continuare su questa strada: quello che hanno creato andrebbe fatto ascoltare ai giovani di oggi, per istruirli su qual è la vera musica che merita di essere fruita. Tanto di cappello dunque.

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3 pensieri riguardo “Dream Gone – Metamorfosi in Viola

  1. Conosco Simone Osmari da sempre e l ho seguito nel suo percorso musicale… Un ragazzo con un animo nobile come pochi oggi…. Che da anni percorre la sua strada musicale crescendo e cercando di migliorare sempre… Sono convinta che prima o poi arriverà con un dito nei cuori dalle orecchie giuste…. .che oggi sono davvero poche… Ti faccio un grande in bocca al lupo amico mio sei una grande anima e un grande artista avanti tutta sempre un forte abbraccio.

  2. Complimenti per la bella musica caro Simone Osmari, io ti ho apprezzato anche come poeta, un Artista sensibile! Congratulazioni per l’ultimo album del gruppo Metaviola

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