Devo ammettere che, pur non essendo del mio genere preferito, questo disco si è presentato a me come qualcosa di gradevole e di rilassante ascolto.
Regna sovrana la sperimentazione, sia a livello sonoro che a livello vocale: si tratta di un album che sfrutta appieno tutte le potenzialità dell’elettronica e le variazioni sonore che offre, rivelandosi essere un piccolo gioiello di synt-pop e, appunto, di musica elettronica.
L’essenzialità è poi un altro elemento alla base di tutto, perché, nonostante vengano esplorate tutte le capacità di un certo modo di fare musica, sia le sonorità che le parole sono ridotte al minimo, all’essenziale appunto: non c’è una sovrabbondanza di stimoli per l’ascoltatore, ma il disco procede in una precisa direzione, che è quella di sollecitare chi ascolta con piccole perle di sperimentazione musicale e stilistica, senza riempire le sue orecchie e la sua mente di troppe sollecitazioni, ma cercando di centellinare questi stessi stimoli, dosandoli efficacemente nello sviluppo del disco.
Sono sicuro che uno degli artisti che ha fatto la storia della musica, sia come membro degli Chic che come grande produttore dal fiuto infallibile, cioé Nile Rodgers, sarebbe fiero del lavoro fatto da Al Vox all’interno dell’album, perché esso fa proprio della ricerca la sua matrice fondamentale, il suo marchio di fabbrica: traspare chiaramente lo sforzo fatto dal nostro artista per non apparire scontato, per non fare qualcosa che è già stato fatto, per non proporre ciò che è già stato proposto. Siamo di fronte ad un’opera che, per quanto breve sia la sua durata e per quanto ridotto sia il numero delle sue canzoni, mostra in modo ben definito l’intento di Al Vox, che è quello di divertirsi e divertire, attraverso una musicalità sempre diversa di canzone in canzone, un’architettura sonora che muta con il procedere dell’album.
Dopo questa doverosa premessa, possiamo entrare nello specifico della fatica discografica del nostro autore, andando a parlare di ciascun brano, preso singolarmente.
La prima canzone, “Gimme A Fix”, si apre con delle sonorità interessanti, che possono essere accostate alla discomusic, ma a una discomusic per così dire “elaborata”: la base può essere sicuramente essere accostata a quella di alcuni brani che hanno fatto la storia del genere, ma quello che l’autore ci mette in più è sotto gli occhi di qualsiasi ascoltatore un po’ allenato, cioè una buona quantità di sonorità per così dire “sintetiche”, “artificiali”, che non compromettono l’ascolto della canzone, ma che anzi lo rendono piuttosto interessante ed intrigante. Abbiamo un beat che fa da sottofondo a tutto il resto, a cui si sovrappone un suono accostabile a mio parere a quello dei Depeche Mode più “estremi”, che appare come una melodia di tastiere per così dire “effettata”, distorta, oserei dire un po’ “psichedelica”, che riesce ad ipnotizzare l’ascoltatore e a trattenerlo, attraendolo con qualcosa che ha sentito in rare occasioni. Ciò che colpisce, in termini strettamente architetturali, è la capacità di mantenersi su di un livello di essenzialità, nonostante la varietà di soluzioni che vengono impiegate nello sviluppo del brano: come detto all’inizio, l’ascoltatore non viene travolto da una quantità esagerata di stimoli, ma si trova circondato, quasi avvolto e accarezzato da un suono che varia, che si sviluppa, che assume forme diverse, nonostante la struttura della canzone si mantenga piuttosto stabile, con la ripetizione di alcuni elementi caratterizzanti, in una ben impostata alternanza. Interessante è poi quella che appare come una linea di basso molto accelerata, che si sviluppa nelle parti di intermezzo della canzone. C’è poi una sezione in cui tutto sembra “zittirsi” per qualche secondo, lasciando solo un beat di base, ma andando poi in progressione e aggiungendo di volta in volta elementi, per ritornare alla struttura che fa da perno, attorno alla quale tutto si sviluppa. Se passiamo al testo, possiamo dire che si tratta quasi di un’invocazione che si ripete ossessivamente per tutta la durata della canzone: il protagonista del brano chiede di essere guarito, perché si sente malato nella sua stanza da letto e contemporaneamente si sente anche “oscuro”, forse perché vede la realtà intorno a sé come qualcosa di buio, come un tunnel oscuro da cui non riesce a uscire, nel quale non riesce a trovare la luce. Credo che questo sia l’inizio dell’esperienza del protagonista della canzone, che si sente un po’ perso e ha bisogno di qualcuno che gli dia un’aggiustata, a livello sia fisico che mentale.
Percepisce una presenza all’interno della propria camera da letto, che gli dice “Sei pazzo”, ma lui afferma di non esserlo più se si trova insieme alla persona che gli fa da guida nella vita. Per tornare un attimo alla struttura della canzone, si può dire che l’accostamento della melodia e del testo sia piuttosto azzeccato, calibrato con precisione: i due elementi si sviluppano armonicamente e in sintonia perfetta all’interno dello svolgimento del brano.
La seconda canzone, “Downation”, ha un beat molto più accelerato e aggressivo e un sound più lineare: anche qui, quindi, abbiamo la ripetizione di alcuni elementi fondanti, in una sorta di “ossimoro sonoro”, tra la quantità della base ritmica e la linearità della melodia. Viene presentata quella che sembra essere una nazione, o comunque una città, in cui tutto appare in pace e buono, apprezzabile, in cui si può scoprire la verità su tutto. C’è poi l’invito ad aprire gli occhi, a seguire la massa delle persone, a comportarsi come loro, a seguirle. Subito dopo, però, il soggetto della canzone viene definito come una “città tossica”, in un crescendo vocale, forse proprio perché dà questa impressione illusoria che tutto vada bene, che tutto sia buono, che per essere accettati bisogna fare quello che fanno tutti, aprendo gli occhi e giungendo in questo modo a scoprire una presunta verità. Il titolo della canzone è poi a mio parere molto significativo, perché può significare, letteralmente, “la nazione che sta sotto”, quindi, parlando in modo dantesco, l’inferno, ma può anche richiamare, con una certa assonanza, la parola “Damnation”, il cui significato di “dannazione” implica qualcosa a cui le persone vengono costrette senza la loro volontà e che devono subire come una sorta di “punizione” per poter stare nel mondo apparentemente “fatato” della “Downation”. Si tratta comunque di una canzone estremamente concisa, che va dritta al punto, senza perdersi in inutili ricami o ghirigori, richiamando uno dei concetti introduttivi di questa mia recensione, cioè l’essenzialità.
Passiamo ora al terzo brano, “Impression”, una canzone che appare estremamente rilassata, dalle atmosfere auliche e sognanti. E’ presente un beat molto più regolare e calibrato, con un accenno a sonorità elettroniche che sembrano quasi “new age”, indiane e favoriscono la meditazione, la riflessione. Quello che mi colpisce è che è presente anche in questa canzone un momento, seppur breve, in cui la melodia si arresta per lasciare spazio alla voce, posto più o meno al centro del brano stesso, quasi a creare un ulteriore “stacco”, per avere un nuovo punto di riflessione, per arrestare qualsiasi pensiero si abbia in testa e concentrarsi sulle parole che vengono pronunciate dall’autore.
Le sonorità elettroniche che vengono proposte in questo brano hanno anche, secondo me, un certo nonsoché di hawaiano, perché richiamano nella mia testa la tranquillità di un atollo marino, presente al centro del mare, in cui tutto quello che ci circonda appare come “ovattato”, dai toni e dagli angoli smussati.
Secondo me è necessario anche sottolineare la ripetizione, quasi ossessiva, operata verso la fine della canzone, dei versi “You don’t say Nothing” e “I’m Thinking of You”, quasi per creare una contrapposizione tra i sentimenti di quelli che possono essere considerati i due protagonisti della canzone: uno non dice nulla, sembra immobile e indifferente, mentre l’altro continua a pensarlo. Anche qui si evidenzia un contrasto, fra qualcosa che non si muove e qualcosa che invece compie un’azione, che riguarda il pensiero e si rivolge a chi invece resta fisso, immobilizzato nella sua situazione.
Il contrasto a mio parere si crea anche fra questa particolare canzone e quella precedente, che, come detto, ha dei ritmi molto più sostenuti: sembra quasi che si sia creata come una “calma apparente”, dopo il ritmo rapido e scandito del brano precedente, una calma che però non sembra portare da nessuna parte, dato che, come detto, una persona continua pensare all’altra, che non dà nessun segno di risposta, non parla e non comunica.
Forse la canzone si chiama “Impression” proprio perché chi pensa all’altro si può basare soltanto su delle impressioni, quindi su delle sensazioni e opinioni personali, che non sempre coincidono con la realtà dei fatti: il problema è che non può nemmeno averne una controprova, proprio perché l’altro o l’altra non mostra segni di reazione.
Rivolgiamo ora la nostra attenzione alla quarta canzone, “Need to Fly”: mi ha impressionato il marcato contrasto tra una prima parte che sembra richiamare alcune composizioni dei Kraftwerk o dei Devo, con una voce quasi “robotica”, ed una seconda parte, che può fungere da ritornello, in cui la vocalità sembra “aprirsi” maggiormente, liberandosi dai vincoli in cui appare essere costretta, per librarsi libera nell’aria e dare sfogo al desiderio di volare provato dal protagonista del brano, volare nello spazio della vita, in compagnia della persona a cui vuole bene. Sembra compiersi un processo di rinascita, perché nelle canzoni precedenti veniva espresso quasi sempre uno stato di difficoltà, di apprensione, di mancanza di comunicazione: il protagonista vede solo sé stesso e la persona che gli fa compagnia, senza nessun altro intorno, e manifesta la propria esigenza di sollevarsi da terra, di librarsi in volo, di guardare tutti i problemi e tutte le mancanze dall’alto, per averne una visione più completa e comprenderle più a fondo, o comunque per liberarsene definitivamente.
Il cambiamento di registro nel cantato viene come detto sottolineato anche da quello nella melodia, perché di passa da qualcosa di molto schematico, rigido, intrappolato come in una gabbia, a qualcosa che richiama atmosfere più solari, più luminose, più vivide, come è vivido il desiderio del protagonista di spiccare il volo, di librarsi al di sopra di tutte le cose che lo imprigionano, lo costringono, gli tarpano le ali, per restare all’interno della metafora. Il volo comunque non è solitario, perché, come viene affermato proprio nel finale, il pensiero è rivolto sempre a un altra persona, e questo secondo me è una delle cose più belle dell’album: c’è sempre qualcun altro nei pensieri del protagonista, che possa essere ricettivo o meno al suo pensiero, ma comunque è sempre presente.
Il disco si conclude con la canzone secondo me più ballabile: mi piace molto, in particolare, il beat alla base del brano, molto delicato, ma allo stesso tempo efficace e solare, che spinge a muoversi, a ballare, a muovere il corpo seguendo il ritmo. La parte di melodia, sempre elettronica (e questa è una caratterizzazione peculiare del disco), è ridotta all’osso, fornisce solo alcuni spunti, ricordando quasi le colonne sonore di alcuni film italiani di qualche anno fa, che hanno visto come protagonisti la coppia Bud Spencer e Terence Hill, soprattutto nelle scene iniziali e di raccordo, nelle quali i due non sono impegnati a darle di santa ragione ai loro “nemici”. La melodia mi ha anche ricordato quella di alcune canzoni degli ABBA, soprattutto nei loro brani maggiormente caratterizzati verso la disco music, la dance music. L’unica nota di differenza la vedo nella ritmica, che appare meno frenetica e leggermente più rilassata, creando un effetto complessivo di grande sospensione, nel quale l’ascoltatore si trova completamente coinvolto e assorbito, attratto per così dire da qualcosa di ammiccante, che strizza l’occhio a melodie che a lui sembra di aver già sentito in passato e che gli richiamano momenti belli, sereni e felici.
Leggendo il testo, vediamo che si tratta di una canzone d’amore, che in apparenza unisce degli elementi fra loro contradditori: ritorna qui un certo gusto per l’ossimoro che secondo me piace molto all’autore. Egli infatti dice di chiedersi perché si sente bene, magari riferendosi alla propria situazione fisica, quando invece è così “malato”, infelice, perché la sua lei non è lì con lui. Alla fine comunque è tutto ok perché lui si trova bene con lei, almeno quando loro due sono insieme, cosa che non capita così spesso, da quello che si evince dalle parole di lui. Il protagonista del brano chiede alla propria lei di sorreggerlo, di dargli dei brividi, di baciarlo, ma soprattutto di amarlo, che è la cosa fondamentale.
A mio parere, in questa canzone la voce di Al Vox assume una tonalità ancora diversa: questa capacità di modulare la propria vocalità a seconda della linea melodica su cui si canta è secondo me una peculiarità di un abile cantante. A questo proposito, mi viene da fare un paragone “irriverente”: la voce del nostro artista sembra ricordare un po’ in questo brano quella di David Gilmour, soprattutto quando richiama l’attenzione della propria lei con il caratteristico “Hey”, che dà anche il titolo alla canzone. Mi sembra che Al Vox riesca ad esprimere attraverso ciò che canta una varietà di sentimenti, sensazioni, stati d’animo ed emozioni molto ampia ed estesa, scandagliando tutti i lati dell’animo e del cuore dell’uomo.
Il disco, nel suo complesso, mostra un processo di crescita, perché si passa dalla difficoltà di comunicare con la propria partner, dalla necessità di ricevere un’aggiustata, dall’impossibilità di avere una risposta, alla richiesta, chiara e definita, di essere amato, di ricevere le attenzioni che si pensa di meritare. Alla fine, sembra che l’amore e i buoni sentimenti l’abbiano vinta su tutto il resto, che il protagonista di quello che potremmo chiamare un “bildungsroman” ha pienamente compreso i propri limiti e come affrontarli, affidandosi cioè alla persona che gli sta accanto.
Nelle prime canzoni ho percepito un certo senso di malessere, di instabilità, di ricerca di un equilibrio interiore, che, nello sviluppo dell’album, sembra trovare la propria soluzione, il proprio positivo compimento.
Mi sento quindi di consigliarne l’ascolto a chiunque, perché, nonostante sia un’opera essenzialmente elettronica e sperimentale, ha in sé una certa gradevolezza, una certa sensibilità, che è in grado di stimolare tutti i sensi dell’individuo, di toccarne il cuore e l’anima: la sua brevità e concisione non fanno altro che aumentarne l’interesse, perché in sole cinque canzoni l’autore è riuscito a condensare una ricca gamma di emozioni, anche solo attraverso le basi melodiche utilizzate, visto che i testi sono molto brevi.
Personalmente, devo dire di essere rimasto favorevolmente colpito dal suo ascolto, anche se, come detto, di discosta dal mio genere di musica: lo considero l’opera di un piccolo genietto musicale, che riesce a dire tanto senza annoiare e stancare. La forza di questo disco sta proprio nella capacità di comunicare, andando diritto al punto, senza tanti fronzoli, ma manifestando l’essenzialità di una vasta gamma di sentimenti che albergano nell’animo umano: non sempre l’abbondanza paga, a volte è sufficiente anche essere concisi, se si ha ben in mente l’obiettivo che si vuole raggiungere e il messaggio che si vuole comunicare.