Recensioni

Shitay – Alberto Morelli

Devo ammettere l’ascolto di questo album, che reputo molto bello, mi ha colpito nel profondo, perché mi ha riportato un po’ indietro nel tempo, quando da ragazzino studiavo chitarra classica nell’ambito di un corso organizzato dal mio Comune. Mi capitava spesso, soprattutto negli ultimi anni, di dover studiare delle composizioni, dei preludi di artisti spagnoli, in grado di creare un’atmosfera unica nel suo genere e di riportare l’ascoltatore alle radici della sua esperienza di vita, alle sue origini.

Sono convinto che due artisti, quali Brian Jones e George Harrison, sarebbero andati fieri di questo disco, proprio perché sono stati fra i primi a portare la musica etnica all’interno del genere rock, e quest’album è fatto interamente di musica etnica.

Si sentono strumenti inusuali per la musica odierna e si può parlare di un’opera che va decisamente controcorrente a quanto va di moda in questo momento: le atmosfere sono estremamente rilassanti, ed è impossibile non pensare alla natura incontaminata, alle vaste distese di acqua e verde mentre si ascolta il disco.

E’ innegabile l’influenza che un immenso chitarrista come Paco de Lucia abbia esercitato sul nostro artista: la chitarra flamenca la fa quasi da padrona, creando ritmi che fanno sognare e spingono a ballare, magari con gli occhi chiusi e la mente completamente rivolta alla natura incontaminata, immaginando di danzare in un’immensa distesa verde.

Come poi non pensare ai Gypsy Kings, gruppo che ha fatto dei ritmi ispanici e sudamericani una sua bandiera? Sono convinto poi che anche uno come Jimi Hendrix sarebbe stato fiero di un’opera del genere, lui che ha fondato, prima della sua prematura scomparsa, una band chiamata, appunto, “Band of Gypsys”.

Ma passiamo alle singole canzoni, che a mio parere meritano tutte un commento.

La prima di esse, intitolata “Mensaje de las cinco cuerdas”, alterna momenti di immensa rilassatezza, con un arpeggio che purifica l’anima e il cuore, a momenti in cui il ritmo tribale prende il sopravvento, facendo assumere al brano una tensione quasi selvaggia. Quando ho ascoltato questa canzone, mi è venuto subito in mente il film “Mission”, perché essa avrebbe potuto rappresentarne una convincente colonna sonora, soprattutto nelle sue parti maggiormente ritmate e solenni. Sappiamo che il tema principale è eseguito da uno strumento di origine andina, segno della capacità dell’artista di contaminare stili e melodie diverse. Il titolo potrebbe indicare proprio le cinque corde che caratterizzano questo particolare strumento, che ci lascia un messaggio inusuale, difficile da dimenticare, per la sua intensità e per la particolarità delle sue variazioni.

Segue poi il brano “Luna Park”, con il suo ritmo che appare da subito festoso ed estremamente ballabile: se chiudo gli occhi quando lo ascolto, mi viene in mente una danza di coppia appassionata al centro della pista da ballo, cadenzata dai battiti di mano a tempo degli spettatori. La canzone mi sembra in perfetto stile Gypsy Kings, e mi immagino di sentire l’eco del loro cantato che si sovrappone alla melodia festosa e gioiosa. La linea melodica è una celebrazione dell’allegria e della voglia di festeggiare, ma secondo me esprime anche molta passione e molto amore: mi è piaciuta in particolare una sezione, nella seconda parte della canzone, caratterizzata da una melodia a carattere discendente, che contribuisce a dar corpo all’insieme, oltre alla presenza di una chitarra principale, che esegue appunto il tema principale, con altre chitarre che fanno da sottofondo ritmico. Bella anche la piccola variazione, presente verso la fine, che mette in evidenza le sole percussioni, che sembrano essere quelle che si utilizzano sedendoci sopra e battendo il ritmo a mani nude.

La canzone è un vero e proprio Luna Park, che riesce a illuminare con la sua luce e ad affascinare, con un ritmo che sembra non fermarsi mai e dà l’impressione di non volersi affatto fermare, talmente grande è il divertimento di chi suona.

Il terzo brano si intitola “Ida y Vuelta” e ha un andamento più disteso e rilassato, estremamente sensuale: mi ha entusiasmato la parte in cui si sente il suono di uno strumento dal suono estremamente cupo, che si accompagna a quello più cristallino della chitarra di sottofondo. Mi è sembrato un accostamento molto azzeccato, perché la sovrapposizioni di melodie diverse, di sonorità che nonostante la loro diversità ben si amalgamano, non fa che conferire un maggiore interesse e una maggiore capacità di stimolare i sensi dell’ascoltatore. Ammetto di aver chiuso per un attimo gli occhi quando ho ascoltato il brano, lasciandomi trasportare dall’atmosfera di estrema sincerità e autenticità che esso si dimostra in grado di fornire: mi sono immaginato un amante che ha perduto la sua lei e che non riesce a smettere di pensarla intensamente, con ogni cellula del suo cervello, con un trasporto e una passione molto intensi, in grado di rapire secondo me qualunque persona si accosti alla canzone, oserei dire soprattutto chi le si accosta per la prima volta e non è avvezzo a questi ritmi e a queste sonorità.

Mi è inoltre piaciuto il vezzo di concludere ogni linea melodica con una serie di note più alte e in una successione più rapida, cosa che ha contribuito a rendere ancora più interessante la canzone ai miei occhi, perché ha dimostrato la capacità dell’autore di stupire, anche con piccoli particolari, che a un orecchio non attento possono risultare insignificanti, ma che invece fanno tutta la differenza del mondo.

Ed eccoci giunti alla title track, “Shitay”, il cui titolo significa “figlio del vento” e che appare suonata da uno strumento diverso dalla chitarra flamenca, dalle sonorità meno cristalline e molto più gitane: questo crea un contrasto con ciò che si è sentito fino a quel momento, direi un piacevole contrasto, che propone un nuovo tipo di suono a orecchie che si erano abituate ad ascoltare quello della chitarra flamenca. Ci sono variazioni di intensità sonora, di tempo e di ritmo, e non manca comunque anche in questa canzone la chitarra flamenca, che va successivamente ad affiancare lo strumento principe della canzone.

L’immagine che questo pezzo ha portato alla mia mente è stata quella di una danzatrice del ventre, dai movimenti sinuosi e sensuali: la canzone esprime però a mio parere anche una certa malinconia di fondo, quasi che il vento abbia rivoluto con sé il proprio figlio e il brano voglia esprimere anche un certo senso di mancanza, di lontananza. Proprio perché si è figli del vento, si è alla mercé delle sue folate, che improvvisamente possono portare via dagli sguardi della gente, oppure trascinare con sé chi si trova nelle vicinanze, portandolo con sé, in un mondo fatto di sogni e speranze, ma anche di rimpianti e malinconia.

Non si sa mai cosa potrà succedere, data la mutevolezza del vento: il titolo e anche in un certo modo la melodia, mi hanno fatto venire in mente il film “Chocolat”, in cui la protagonista e sua figlia vengono portate da un posto all’altro nel mondo dal vento del Nord, finché la prima decide che è tempo di fermarsi.

Abbiamo poi la quinta canzone, intitolata “Marea”, dall’andamento più solenne e rallentato, in cui però la chitarra ha modo di esprimersi pienamente, con un’introduzione molto solenne e una prosecuzione che rapisce i sensi di chi ascolta: è impossibile non fare un viaggio mentale ascoltandone la melodia e le note. Ci sono arpeggi, accordi, cambi di tonalità, un suono mutevole ed estremamente vario, insomma tutto quello che un orecchio esigente pretende di di ascoltare. Anche questo brano mi ha fatto pensare all’immagine di una danza, ma molto appassionata e dolente: mi è balzata agli occhi la figura della componente femminile della coppia che ad un certo punto volge lo sguardo lontano dal proprio partner, verso l’infinito, con una lacrima che le sgorga dall’occhio e che va a perdersi nell’immensità dello spazio.

Chissà se questa lacrima sarà andata a riempire il mare a cui è dedicata la canzone, che celebra il fascino che esercitano le onde, con il loro rumore avvolgente e la loro forza e costanza, in grado di erodere qualunque cosa costruita dall’uomo.

L’introduzione crea un senso di aspettativa e attesa, che poi si risolve nel ritmo cadenzato della chitarra, che si sviluppa ulteriormente in una serie di variazioni: la fantasia dell’artista appare illimitata, così come la sua capacità di suonare, di dare impressioni e suggestioni diverse ad ogni battuta, stupendo ogni volta l’ascoltatore e dandogli la vivida impressione di quanto mutevole possa essere la marea, in grado sia di accompagnare dolcemente dei momenti di passione, ma anche di dimostrare tutta la propria forza, dando un serio avvertimento all’uomo, che se non fa attenzione può ritrovarsi travolto.

Segue poi la canzone “Estate 2019”, l’ultima prima dell’avvento del Covid: il brano si apre con una cadenza tipicamente latina, sudamericana, che è impossibile non ballare, se non con il corpo, con l’immaginazione. Abbiamo poi un cambio di ritmo, con un rallentamento che crea un atmosfera di mistero, che sembra mostrare qualcosa di sconosciuto, di irrealizzabile. Dopo questa variazione, il ritmo torna ad essere cadenzato, con un senso di maggiore compiutezza, di ritorno alle origini: può essere che la canzone sia la manifestazione dei ricordi e delle esperienze legate a quella particolare stagione di quel particolare anno, iniziata in modo gioioso, con un breve spazio di malinconia, che poi viene superato, per tornare alla spensieratezza iniziale.

La cosa certa è che il ritmo e la melodia espresse nella seconda parte del brano sono in grado di rapire l’animo e il cuore di chiunque abbia un minimo di sensibilità, con perfette armonie di chitarra e uno sviluppo sempre più appassionante e travolgente, dal quale devo ammettere di essere stato affascinato profondamente.

Devo ammettere di aver ascoltato pochissima musica di questo tipo, nonostante l’abbia a volte suonata da bambino, come dicevo all’inizio, ma penso che, dopo aver recensito questo disco, le melodie ispaniche, latine, sudamericane entreranno nel novero dei miei ascolti, se non quotidiani, almeno periodici, perché é un genere di musica in grado di appassionare come pochi, di creare sensazioni molto forti, che si impongono con tutta la loro potenza nell’animo dell’ascoltatore, facendogli desiderare che non finiscano più.

Si generano una serie di emozioni e sentimenti difficilmente descrivibili, che prendono il corpo e la testa nella loro interezza, non lasciandogli via di scampo. Ovviamente, sia il corpo che la testa devono essere predisposti all’ascolto, essere aperti a possibili e improvvisi cambi di ritmo, di tempo e di melodia, preparati a possibili sorprese e ad ogni tipo di variazione e armonizzazione fra strumenti di differente estrazione, in un mix perfettamente riuscito.

L’album si conclude con “Ninna na’”, una vera e propria ninna nanna, chissà se dedicata ad un bambino in particolare o a tutti i bambini del mondo. Fatto sta che la melodia esprime una grande dolcezza, con un ritmo piuttosto lento e conciliante, che culla dolcemente l’ascoltatore e lo porta in un mondo onirico, fatto di sogni che dolcemente si possono realizzare.

Il brano è una canzoncina che ogni papà può suonare alla propria creatura, per farla addormentare serenamente, attraverso una nenia estremamente dolce, in grado di conciliare con il mondo e farlo apparire, seppur per qualche minuto, più bello e meraviglioso.

Mi è parsa molto curiosa la scelta di concludere l’album con una ninna nanna: forse è stata dettata dall’intenzione di far riposare i sensi dell’ascoltatore, dopo tutti gli stimoli che gli sono stati forniti. Una ninna nanna, comunque, va a concludere una giornata ed è suonata e cantata immediatamente prima di dormire, quindi ritengo che ci stia come conclusione di “Shitay”: sono comunque rimasto stupito di trovare una canzone del genere all’interno di un disco di musica pop, e anche questo è un’ulteriore dimostrazione della vitalità compositiva del nostro artista, della sua vena creativa fantasiosa, del suo gusto per l’inaspettato, per le scelte che possono ad un primo sguardo apparire senza una ragione fondante vera e propria.

E’ dunque impossibile non restare stupiti e affascinati di fronte a un disco del genere, che combina la passione dell’autore per gli strumenti “insoliti”, magari sconosciuti ai più, e le sonorità ballabili e ritmate, tipiche del mondo sudamericano e latino.

Di solito i dischi interamente strumentali possono apparire ad alcuni come noiosi, pesanti e interminabili da ascoltare: questo album è proprio il contrario, perché con la forza della propria musica, che a tratti è irresistibile, e con le invenzioni creative del suo autore, ci fa venire voglia che ciò che sentiamo non finisca mai, perché contiene tutto quello che un ascoltatore appassionato può desiderare, in una completezza che si può trovare raramente in un disco di questo genere.

Ne consiglio quindi vivamente l’ascolto, per rendere la propria vita, o comunque la propria giornata, più completa e appassionata, più sincera e ricca di sensazioni positive, verso il mondo e verso gli altri.

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