Recensioni

Matto – Antòn

Confesso che, quando ho letto il titolo della canzone di Anton, mi è venuto subito alla mente un verso della canzone “Dieci Ragazze” di Lucio Battisti, nel quale il grande cantautore dà appunto del matto a quella persona che forse non sa che lui può averne una per il giorno e una per la sera, pur conoscendolo perché ha detto una cosa vera.

Questa mia confessione iniziale mi serve da spunto per dire che, come il brano di Battisti, anche quello di Anton è autobiografico, e parla di un momento non troppo facile della sua vita, quando era dipendente dagli psicofarmaci e la gente, in modo ignorante, un po’ come quella persona di cui parla Battisti, gli dava del matto, identificandolo come una persona fuori dalle convenzioni sociali, da rinchiudere in un manicomio.

La canzone parte con toni in apparenza più lievi e leggeri, con il nostro cantautore che fischietta un motivetto grazioso, ma subito dopo assume dei toni profondamente rock, con il suono delle chitarre a farla da padrone e una batteria molto sostenuta e ritmata.

Il momento di leggerezza iniziale verrà poi ripreso alla fine del pezzo, quasi a chiudere il cerchio e a rendere il motivo circolare, con un tema che lo apre e lo chiude.

La voce di Anton resta sempre quella, apparentemente sgraziata, stonata, fuori tonalità: si tratta invece di una vocalità molto particolare, che fa del tormento e dello struggimento i suoi caratteri peculiari, come se appartenesse ad un’anima pura e pulita che si trovasse a doversi giustificare per qualcosa che sente e percepisce di non aver fatto o per qualcosa che sente di non essere. A volte, essa assume dei toni sofferenti, dolorosi, proprio perché canta e parla di avvenimenti e circostanze negative, che il nostro artista vorrebbe cancellare e lasciarsi definitivamente dietro le spalle, e che portano con sé dei ricordi esasperanti: è come se Anton ripetesse che non ne vuole più sapere, che vuole farne a meno, che vuole vivere una vita libera da questi giudizi e da queste sovrastrutture, che non fanno altro che renderla pesante e gravosa.

Dai versi della canzone traspare in modo chiaro tutto questo, perché si dice che nella giornata che il nostro sta vivendo sembra andare apparentemente tutto bene, che le catene attraverso le quali era imprigionato in uno sguardo superficiale, strumentale e irrealistico sono state sciolte: sentirsi in gabbia, in trappola, gli fa ribollire il sangue nelle vene, ma le cose sembrano in fondo non andare male, in una normalità che appare comunque condizionata dallo sguardo delle altre persone, come se esse stessero assistendo ad una veglia funebre, della quale lui è il protagonista principale.

Quasi per cercare un appiglio, un aiuto, Anton si rivolge alla persona amata, dicendole che lei non potrà mai capire quello che lui prova e sente dentro di sé, che deve stare sicura del fatto che non esiste una cura per tutto quello che sta accadendo.

Questa prima parte vive dunque un po’ sul contrasto delle sensazioni, perché le cose sembrano andare abbastanza bene, ma nonostante questo la vita sembra un funerale e non esiste cura per il pregiudizio di cui il nostro cantautore è vittima.

Parte quindi il ritornello, nel quale si dice che la gente continua a dire ad Anton che è matto, che è una persona che, invece che costruire qualcosa di solido, è andato a distruggere quello che di bello c’era prima: lui va quindi in controtendenza, dicendo che ne vuole ancora un po’ di cose da distruggere, forse per trovare una valvola di sfogo, rinnegando comunque la paura come sentimento guida della propria vita. Non vuole aver paura, non vuole sentirsi intimorito, ma vuole affrontare di petto e con dignità la situazione.

Nella seconda strofa, il nostro artista si rivolge ancora alla persona amata, dicendole che le può giurare che ha serie intenzioni di picchiare la testa contro il muro (altra valvola di sfogo?), un’azione forte, dirompente, come il mandare a quel paese le persone che lo descrivono come un pazzo: invita dunque il suo amore a scappare via da lui finché é in tempo, se vuole ovviamente, andando il più lontano possibile.

Si arriva dunque alla ripetizione del ritornello: lui sarebbe un matto a causa di tutto quello che ha distrutto, ma ne vorrebbe un altro po’, per sfogare la propria voglia di infrangere le barriere e rompere le catene.

La paura comunque non trova posto nella sua esistenza: non teme di mostrarsi per quello che è perché sente di essere nel giusto, di trovarsi dalla parte della ragione, con chi lo giudica a collocarsi nella parte del torto.

La canzone si conclude ancora con gli stessi versi, con i quali Anton invita le persone che lo definiscono un matto a dargli ancora qualcosa in più, perché ha sete di libertà, di leggerezza, di una liberazione da ogni possibile vincolo che lo incatena ad una realtà che non è quella dei fatti, sempre lasciando la paura in un angolo.

Il momento in cui l’autore ripete per due volte la parola “matto” con se stesse parlando in un megafono, mi ha ricordato in qualche modo quello che ha fatto Matthew Bellamy dei Muse nella cover di “Feeling Good”, in cui il cantante e chitarrista recita alcuni versi proprio attraverso un megafono.

Alla fine, ci resta un buon pezzo rock, arricchito da parti di chitarra piuttosto creative, che si esprimono in radicali e potenti accordi, assoli significativi e linee melodiche di accompagnamento molto distintive: devo dire che i brevi assoli eseguiti in corrispondenza dei versi “la paura no” mi sono abbastanza piaciuti, e probabilmente sono serviti come perfetta continuazione del concetto, andando a ribadire e sostenere quell’idea, quella sensazione e quella volontà di libertà dai giudizi altrui e dai vincoli imposti da una società perbenista.

Abbiamo una canzone che ci riporta alle radici del rock, in cui la tripletta voce-chitarra-percussioni è perfettamente in grado di rendere vividi un’idea, un concetto e un messaggio, accompagnandosi a parole apparentemente semplici, ma di straordinario impatto, proprio perchè in grado di dire come stanno esattamente le cose.

Anton si conferma dunque un grande storyteller, un artista capace di raccontare la propria avventura nella vita e nel Mondo con termini che sembrano ovvi e scontati, ma che in realtà vanno alla radice di quello che vuole affrontare, comunicandolo a tutti quelli che vogliono ascoltare con le proprie parole e le proprie note.

Il nostro musicista ha ormai raggiunto un’identità, una personalità e una modalità narrativa perfettamente definite e ben salde, che si appoggiano a solide radici e non possono essere sradicate da un qualsivoglia pregiudizio.

Non è assolutamente facile parlare delle proprie difficoltà, e quindi ammiro il coraggio di Anton: la musica ha anche questo potere, quello cioè di esorcizzare le nostre paure, ciò che temiamo di più e ciò da cui vogliamo fuggire, i nostri demoni interiori, alimentando la nostra voglia di distruggerli completamente.

L’artista ci ha fatto un dono di grande valore: sta a noi apprezzarlo completamente e essere grati del fatto che esistono ancora degli autori che, tramite la musica rock, cercano di comunicare delle esperienze di vita, a volte dure e pesanti, a volte allegre e spensierate, sempre con il principio guida dell’assenza di ogni paura. La musica e il testo sono utilizzati quasi come un diario, a cui attribuire il compito di conservare le proprie confidenze e le proprie difficoltà: a differenza di un diario, comunque, tutti possono entrare in contatto con queste riflessioni e farle proprie, magari perché hanno vissuto sulla propria pelle le stesse disavventure e per questo si identificano in ciò che sentono e percepiscono. Tutto questo, senza ombra di dubbio, vale moltissimo.

 

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