Un titolo molto impegnativo, per un album molto impegnativo e pregno di elementi da sottolineare, denso di cambi di stile e di strumento, con una vocalità che rappresenta una parte minore rispetto alla preponderanza di quella strumentale.
E’ sempre complesso recensire un album quasi interamente strumentale, perché la domanda che molte volte ci si pone è legata alla capacità o meno dei soli suoni di trasmettere idee e concetti, cosa che le parole riescono ad eseguire meglio di tutti.
Oltre al titolo dell’album, abbiamo anche alcuni titoli di canzoni che toccano un livello di complessità abbastanza elevato, e oserei dire anche azzardato, perché dipanare un concetto lungo e articolato usando solamente il suono non è impresa semplice, poiché implica capacità interpretative superiori alla norma e capacità di comprensione notevoli.
Se analizziamo il titolo del disco, ci accorgiamo da subito che l’impresa che le Metamorfosi In Viola hanno intenzione di compiere abbraccia praticamente tutto lo scibile umano, in quanto si vuole costruire un’apologia, cioè un discorso teso ad esaltare il proprio oggetto, del bene, del male e di altri non meglio specificati argomenti di carattere ideologico.
Questo titolo, di primo acchito, mi ha portato alla mente il nome di uno dei tanti progetti musicali di Damon Albarn, leader e voce dei Blur: questo progetto si chiamava “The Good, The Bad And The Queen”, e in un certo senso può essere affiancato all’impegnativo titolo dell’album che mi trovo a recensire, perché è anch’esso costruito da qualcosa di buono, da qualcosa di cattivo e da una Regina, presumibilmente quella d’Inghilterra, che prende il posto delle argomentazioni ideologiche, poste sotto una lente di ingrandimento e messe sul tavolo, come delle fiches giocate a poker, da parte di un giocatore che vuole rischiare tutto quello che ha guadagnato fino a quel momento.
Potremmo dire che la filosofia alla base di questa fatica discografica sia riassumibile nell’espressione “all in”, tipica del poker, espressione che indica il gesto coraggioso di un giocatore che mette sul tavolo tutto quello che possiede, rischiando tutte le sue vincite in una mano secca: allo stesso modo, in questo caso, i Metamorfosi in Viola vogliono mettere in gioco tutti gli elementi che compongono la vita umana e l’esistenza degli uomini su questa Terra, ciò che è buono, ciò che è diabolico, oltre ad una serie di argomentazioni ideologiche, presumibilmente legate ai due elementi contrapposti citati prima.
Siamo quindi in presenza di un disco ambizioso, temerario, che non ha paura di essere giudicato per quello che è, che non teme recensioni negative, perché chi lo ha composto è ben consapevole delle proprie capacità e della propria forza.
Già dal titolo della prima canzone, “I Hate Your Gaze Because I Can’t Fine In Your Soul Once So Precious And Fragile”, è, come si dice, un bell’andare: il protagonista dice di odiare lo sguardo dell’altro perché la sua anima era una volta così preziosa e fragile.
Deve quindi esserci stato un radicale mutamento all’interno dell’anima dell’altra persona, che non è più preziosa e fragile, ma che al contrario ha perso valore, forse proprio perché la fragilità che manifestava in precedenza e che la rendeva unica è completamente sparita, in luogo di una ritrovata forza d’animo, che viene evidentemente considerata come un fattore negativo.
Solitamente, è vero che le cose più fragili sono allo stesso tempo le più preziose, perché ci vuole una maggior dose di cura quando le si “maneggia”, visto che ad ogni piccolo scossone possono rompersi: anche un’anima fragile può dunque rompersi se trattata con durezza, mentre un’anima al contrario forte è abituata a sostenere il peso delle mareggiate avverse della vita.
Il brano è completamente strumentale, oltreché piuttosto lungo, e comincia subito con il botto, con un riff di chitarra elettrica lanciato al massimo, veloce, senza fronzoli, autentico, profondamente rock, che si apre e si chiude su sé stesso in maniera circolare, con leggere variazioni di tonalità tra un “cerchio” e l’altro, ma con una struttura di base sempre uguale a sé stessa.
Questo riff è accompagnato da una base ritmica costituita da una solida batteria, che picchia sui tamburi in modo selvaggio e potente, dando all’insieme un’impressione di “virilità” e mascolinità, mostrando insomma i muscoli.
Questa potenza introduttiva si ferma dopo una quarantina di secondi, per lasciare spazio ad una parte maggiormente arpeggiata, ma sempre e comunque estremamente ritmata, che dà una sensazione di freschezza e limpidezza: sembra quasi che ci siano due chitarre che eseguono due linee melodiche leggermente diverse, con una che fa da sottofondo all’altra, e pare quasi che la linea di chitarra si sdoppi, con una parte a volume più basso ed un’altra a volume più elevato, il cui contrasto è piuttosto interessante e coinvolgente.
In questa sezione, ogni tanto si sente un accordo con un po’ di eco e riverbero, che va a completamento della parte arpeggiata, dandole sostegno e forza: nello sviluppo della canzone, la seconda linea di chitarra diventa elettrica e assume una connotazione sempre più vigorosa, tanto che arriva a sovrapporsi alla prima linea arpeggiata, in un gioco di rimandi e alternanze che rende il tutto più gustoso e fruibile da un ascoltatore abituato al rock.
Dopo questa parte, torna a fare capolino quella che abbiamo definito come “circolare”, con un riff che si ripete appunto circolarmente e si avvolge su sé stesso, reso vario da dei leggeri cambi di tonalità: a testimonianza della varietà intrinseca del pezzo, questa sezione diviene molto rapidamente un ricordo, come molto rapidamente era entrata, lasciando spazio di nuovo agli arpeggi simultanei, che danno una ventata di limpidezza e rischiarano l’atmosfera complessiva, togliendo un po’ di durezza e spigolosità.
La linea di batteria che accompagna è sempre molto regolare, e adegua il proprio tono e il proprio volume alla parte di chitarra che viene eseguita: si ripete poi lo stesso sviluppo descritto in precedenza, con un accordo rude e potente che inizia a far breccia e ad introdurre le parti arpeggiate.
L’accordo si trasforma ben presto ancora in una seconda linea di chitarra, più graffiante di quella arpeggiata, meno pulita e definita: questo contrasto è uno degli ingredienti principali della canzone, rendendola attraente sia per chi ama la durezza sia per chi ama la dolcezza e la limpidezza, e andando ad accontentare quindi una più larga fetta di audience potenziale.
Il copione poi si ripete ulteriormente, con una nuova entrata del riff che abbiamo definito come “circolare”, che si avvolge ancora su sé stesso senza mai annoiare, proprio per il fatto che la sua tonalità cambia leggermente di volta in volta.
Successivamente, entra in gioco un altro elemento di varietà, con la batteria che si modifica leggermente, raddoppiando i propri battiti, e con un bell’assolo elettrico che parte: sembra quasi di sentire Slash, il grande chitarrista dei Guns And Roses, che esprime tutta la propria passione per la sei corde e fornisce un esempio della propria sconfinata abilità, con velocità, senso del ritmo e dell’interpretazione.
La canzone a questo punto può considerarsi conclusa? Nient’affatto, perché si innesta, dopo l’assolo, una parte finale in cui pare di udire un suono di tastiere leggermente effettato, che crea un’atmosfera rarefatta e sembra dare gas, con “spruzzate” di note in accordo che assomigliano al sibilo di un serpente a sonagli.
Il brano si conclude poi con la scomparsa progressiva degli strumenti, in leggera dissolvenza: prima la batteria, poi la chitarra e infine le tastiere, strumento quest’ultimo che va a chiudere il cerchio e ha l’ultima parola.
La parte di canzone più arpeggiata potrebbe rappresentare ciò che era prezioso e fragile, mentre la parte più rude e potente potrebbe simboleggiare l’odio che il protagonista prova per lo sguardo dell’altro e per ciò in cui si è trasformata la sua anima.
Abbiamo poi la traccia “In Transumance”, il cui titolo potrebbe indicare un movimento complessivo delle cose, come la transumanza delle greggi, mosse dai pastori da una destinazione ad un’altra: devo ammettere che, leggendo il titolo, mi è venuta un’intuizione, dato che in esso è contenuta la parola “trans”; la canzone potrebbe anche dare un’idea di sospensione ipnotica, di blocco totale dei sensi per alcuni secondi, di uno stato appunto di “trance” (che si pronuncia però “trans”) in cui cade il protagonista della canzone.
Il brano questa volta è acustico, e si apre con le note di quella che sembra quasi una chitarra flamenca, che esegue prima delle sequenze preparatorie e poi una serie di accordi molto vigorosi, con una pennata molto potente, in un giro con tonalità sicuramente maggiore: gli accordi stessi appaiono essere a volte leggermente dissonanti e forse questo effetto è voluto, per creare un senso di mobilità all’interno del pezzo.
Abbiamo una sequenza di pennate che si ripete con un ritmo sempre pressapoco uguale, con un andamento lento ma con una forza intrinseca molto evidente, anche ad un orecchio non allenato. Su questa sequenza si installa poi la voce, che da subito appare molto struggente, quasi disperata, piuttosto roca, non limpida e pulita: ascoltandola, mi è venuto subito in mente Gianluca Grignani, che si è sempre distinto per la sua vocalità “rugosa” e spigolosa, e per il fatto che tende a strascicare le parole, quasi che a volte non avesse voglia di cantarle.
Il canto appare qui in certi punti quasi una cantilena, come se la voce stesse declamando dei versi che lo infastidiscono, che quasi non vorrebbe cantare, che gli fanno male al cuore mentre li canta, che riaprono delle ferite che si credevano rimarginate.
La voce, però, subito dopo ci sorprende, perché comincia a toccare delle vette più alte, cantando quasi in falsetto e ripetendo più volte il proprio messaggio, con uno sforzo non indifferente, segno che ciò che sta cantando lo tocca nel profondo, lo coinvolge e lo prende con sé: questa parte si conclude con un lamento quasi lancinante, che si trascina per vari secondi, in un momento di acuta sofferenza, che sembra non voler passare mai.
In questo particolare segmento di canzone, mi è sembrato di udire la voce di Vasco Rossi, quando da giovane cantava dei testi veramente incisivi, con forza e con la volontà di restare impresso nella mente dell’ascoltatore: i suoi rudi vocalizzi non erano dunque fini a sé stessi, ma dimostravano un attaccamento profondo a ciò che stava cantando ed esprimendo tramite le sue parole.
Dopo un breve interludio, nel quale si sente solo il suono delle pennate di chitarra acustica, sempre secondo lo schema consueto, riparte a cantare la voce, sempre con lo stesso tono di prima, sempre con l’apparente fastidio che prova nel cantare quegli specifici versi, sempre con una sofferenza che non lo fa stare tranquillo, sempre con un’urgenza di liberarsi di qualcosa che lo opprime dentro.
Abbiamo poi un breve stacco, a cui poi di nuovo fa da seguito la parte in cui il cantante si esprime in un simil-falsetto, gridando al mondo la propria rabbia e il proprio risentimento, e concludendo con un “oooohhhh” trascinato per alcuni secondi, quasi a volersi liberare in un sol colpo della tristezza che ha provato fino a quel momento, cantando qualcosa che lo ha preso nel cuore, nella mente e nell’istinto.
Con questo “ululato” alla luna si conclude la canzone: il pezzo colpisce per la forza dimostrata dalla chitarra acustica, che a volte riesce a comunicare con maggiore potenza anche rispetto all’elettrica, e per l’intensità interpretativa della voce, che con struggimento, dolore e un animo ferito manifesta il proprio messaggio.
La particolarità di questo brano è che è registrato dal vivo, con una qualità del suono e della voce non eccellenti: ma proprio questo fatto contribuisce secondo me a rendere il tutto più autentico, più umano, perché gli artisti sembrano dirci che sono gente come noi, che non vuole elevarsi più in alto, ma che desidera accompagnarci passo passo con il proprio messaggio urlato al mondo.
Direi che gli applausi che si sentono a metà brano e alla fine del pezzo sono pienamente meritati: il mondo dell’arte si è fuso in modo proficuo con quello delle persone comuni, il messaggio è passato e tutti sono soddisfatti di ciò che hanno fatto e di ciò che hanno udito.
Il testo di questa canzone è piuttosto complesso, e nel suo incipit riprende un po’ quello del brano descritto inizialmente, dato che si accusa l’altro di essere un bastardo e un traditore, oltreché uno spacciatore di animali pericolosi, vanità e musica condivisa, in una sequenza piuttosto ermetica, che affianca il mondo naturale, selvatico, a quello dell’arte.
Il resto appare come un complesso flusso di coscienza, con il quale il protagonista della canzone si rivolge all’altro: vorrebbe cacciare via ogni sua fragilità per cancellare l’idea, probabilmente distorta, che ha dell’amicizia: il mood è piuttosto pessimista, sembra non lasciar trasparire molte vie d’uscita, perché si dice che l’andare per le strade ormai non basta più e che nessuno crede più in nulla.
Si aggiunge poi che la società attuale non basta più così com’è e che forse è meglio cambiare che sparire, divenire un’entità altra per dare forma a qualcosa di nuovo, piuttosto che non farsi vedere più: c’è una speranza, ma è quella di non rivedere mai più l’altro, quella di essere un passo avanti rispetto a lui e di osservarlo da una posizione privilegiata.
C’è una stanza vuota, in cui il protagonista non vede più nessuno: si cerca di tenere saldi i nervi, che però saltano inevitabilmente, dato che la rabbia aumenta: non si sa più con chi si sta parlando, si vuole capire dall’altro di cosa parlano queste note che vengono suonate, di una storia sicuramente lunga.
Viene citata un’illusione di tempesta ormonale e la si colloca perfettamente nell’ambito di un preciso passo di un libro: forse si parla di illusione perché non è presente una lei e il protagonista si trova solo con i suoi pensieri in una stanza vuota.
Il testo si conclude poi evocando il giro di basso della canzone, che ricorda al protagonista un momento di vita vissuta, che è presente, anche se lui non riesce a capirlo: vorrebbe comprenderlo con tutte le sue forze e si chiede se è o meno intelligente.
Troviamo poi un’altra canzone in versione unplugged, intitolata “The Miserable”: leggendone il titolo, mi è venuta subito in mente l’opera letteraria di Victor Hugo, un romanzo storico che può aver fatto da riferimento alla stesura del brano stesso.
Chissà se i suoi autori hanno letto questo romanzo storico e si sono lasciati influenzare dalle sue vicende mentre pensavano alla musica da scrivere: un’opera della seconda metà dell’ ‘800 potrebbe aver influenzato una canzone scritta nel 2022; se fosse così, il nostro gruppo avrebbe dimostrato di essere colto oltreché capace di scrivere buona musica.
Si tratterebbe di una forma d’arte che ne ispira un’altra, in un gioco di rimandi e citazioni molto interessante e coinvolgente.
La canzone questa volta inizia da subito con una chitarra acustica accompagnata da una voce: si possono udire in lontananza anche degli strumenti ad arco, che fanno da accompagnamento al tutto e rendono l’insieme più completo e armonizzato.
Sentendo questo incipit, mi è venuto alla mente nientemeno che il grande Lucio Battisti, che ha scritto e interpretato tante canzoni in cui la chitarra acustica faceva da accompagnamento ad una voce molto particolare e sfaccettata.
La vocalità in questo caso è meno sofferente e più declamatoria: per il tono e il timbro, mi ha ricordato anche Samuel, il cantante dei Subsonica, uno degli artisti di punta della scena torinese.
Dopo un inizio relativamente tranquillo, la voce subisce un’impennata verso l’alto, presumibilmente quando canta il concetto cardine del pezzo, quello che sta al centro di tutto e attorno al quale tutto ruota.
Alcune parole chiave del testo vengono sottolineate prolungandone la durata per alcuni secondi, con una modulazione della voce piuttosto efficace, eseguita con perizia e accortezza, restando all’interno del racconto di una storia umana vissuta nella miseria e nell’inquietudine.
C’è poi un breve passaggio, che mostra una progressione armonica degli accordi di chitarra acustica, accompagnata dal suono di quelle che sembrano essere delle tastiere, le quali rendono l’atmosfera complessiva più eterea e rarefatta.
Subito dopo, il cantante si esprime in alcuni intensi vocalizzi, con degli “oooohhh” molto espressivi e prolungati nel tempo, quasi volesse sfogare la tensione accumulata con il racconto fatto nei versi precedenti, cantati a denti stretti.
Abbiamo poi una chitarra acustica che aumenta la forza delle pennate, facendosi sentire ancora di più, accompagnando una voce che ritorna a cantare la propria storia, con un tono che a tratti resta sofferente, ma che nel complesso appare più assertivo e affermativo rispetto alla canzone precedente.
La voce poi si stoppa per un attimo, e la chitarra acustica ha così modo di esprimersi in una sorta di assolo, fatto di progressioni armoniche e di pennate più vibranti, con una sostanza maggiore di quella offerta fino a quel momento.
Riprende poi la tripletta voce-chitarra-archi, che appare essere il centro focale della narrazione sonora, con la voce a prevalere sugli strumenti, in un’interpretazione intensa e forte della vicenda narrata, che colpisce il cuore e l’anima, e non può lasciare indifferenti.
Sono molti i vocalizzi all’interno di questa canzone, a vanno a caratterizzare vocalmente la fine di ogni sezione, di ogni “pezzo” di brano, rendendo come detto l’interpretazione della canzone stessa ancora più intensa e profonda, capace di lasciare segni indelebili in chi ascolta con animo libero e ben predisposto.
Il finale vede un’ulteriore intensificazione della frequenza delle pennate di chitarra, con l’accompagnamento questa volta di quelle che sembrano essere delle tastiere: la voce si ferma dopo l’ultimo, intensissimo vocalizzo, e il brano si chiude con una chitarra acustica predominante e “scampanellante”, vibrante, con le tastiere che suonano le ultime, accorate note e con il tutto che si chiude con eleganza e raffinatezza.
Anche in questo caso il mood generale è piuttosto pessimista, e fa da ideale continuazione del titolo: si dice che con il tempo che passa e con i giorni che scorrono, il mondo uccide le menti migliori per rendere omaggio alla volgarità ormai imperante, che fa ribrezzo all’autore, perché sembrano non contare più le doti individuali, ma apparire volgari invece paga i suoi dividendi.
Si parla poi di persone disperse nella notte che cercano di restare sveglie bevendo caffè a tutte le ore, ma senza un vero perché, dato che alla fine si addormentano, come le proprie coscienze.
Ci si pongono poi delle domande, con il protagonista che vuole capire se lui conosce veramente le cose come stanno, al pari del proprio interlocutore, aprendo poi una breccia di speranza nel buio, e dicendo di credere che il sole possa ancora amare, con uno sprazzo di luminosità all’interno della tenebra che pervade ogni cosa.
C’è poi una domanda che oserei definire suprema, perché ci si chiede se si può credere ancora nelle persone, se si possono ancora stabilire dei legami duraturi fondati sulla fiducia: non è dato sapere se sia il nostro protagonista che il suo interlocutore sappiano dare una risposta affermativa a queste questioni, e il testo lascia aperte tutte le possibili interpretazioni, con una sospensione che genera riflessione nella mente dell’ascoltatore, che viene invitato a pensare.
Abbiamo successivamente un brano che riprende il titolo del precedente, questa volta però mettendolo al plurale ed estendendolo quindi ad una vasta cerchia di persone: il miserabile non è più da solo, ma è accompagnato da altri che sono nella sua stessa condizione.
La canzone si pare con le note di un pianoforte, che esegue una melodia di tipo puramente classico, con note gravi che introducono una serie di note più acute, le quali sembrano raccontare una storia, portandoci in un mondo fatato in cui regna l’immaginazione, mondo non avulso da un senso di malinconia generale, in linea con il mood che permea l’intero album: sembra di sentire Chopin o Beethoven e di essere ad un concerto di musica classica.
Ad un certo punto, la linea melodica del pianoforte sembra sdoppiarsi, tanto che sembra di sentire due pianoforti distinti che si sovrappongono fra loro, con una velocità d’esecuzione che si incrementa progressivamente, creando un senso di urgenza e necessità.
Questa introduzione subisce poi un arresto improvviso, per lasciare spazio alle note arpeggiate di una chitarra elettrica: non nego che questo stacco improvviso mi abbia sorpreso molto, per il passaggio da una parte tematica classicheggiante ad una parte tematica più rock, senza essere preparati, ma così all’improvviso.
Il beat di batteria che fa da accompagnamento alla chitarra è piuttosto essenziale e regolare: pochi battiti ben selezionati, senza eccedere in termini quantitativi, per lasciare il maggior spazio possibile alla già citata linea di chitarra.
L’arpeggio, poi, si fa via via più melodico e dolce, e l’accompagnamento di batteria si irrobustisce un po’, dando una maggior profondità ai propri colpi, oltreché una maggior intensità.
Interessanti sono le progressioni armoniche che la chitarra compie come intermezzo fra una sua parte e quella successiva, intermezzo che funge da legame, creando qualche secondo di varietà sonora.
Come ulteriore accompagnamento al tutto, si possono sentire le note di quella che sembra essere una tastiera, o addirittura di quelli che sembrano essere degli strumenti ad arco.
L’insieme complessivo si fa progressivamente più ricco, con una varietà sonora che si eleva e si ispessisce, cullando l’ascoltatore con un’atmosfera generale piuttosto dolce e rilassata.
Si arriva poi ad una parte che funge da stacco rispetto alla precedente, con gli strumenti che eseguono accordi maggiormente separati fra loro e con alcuni secondi nei quali la batteria suona da sola: non c’è più l’arpeggio, ma ci sono degli accordi che si distanziano fra loro, creando varietà all’interno di una linea melodica che da qualche minuto si ripeteva sempre piuttosto uguale a sé stessa.
Abbiamo sequenze armoniche di accordi che seguono uno schema prestabilito e che creano un senso di pathos e di sospensione, come se fossero preparatori a qualcosa che deve arrivare e che si aspetta con desiderio.
Prende poi il sopravvento la chitarra elettrica, che esegue una sequenza di accordi ripetuta più volte, sempre uguale a sé stessa, che contribuisce ad incrementare il senso di attesa e di aspettativa che c’è nell’aria: dopo circa un minuto, si percepisce un ritorno alla sequenza precedente, con la chitarra e le tastiere o gli archi che dialogano armonicamente, creando un’interessante sequenza d’insieme che riprende nuovamente ciò che era stato eseguito in precedenza.
Il tutto assume dei contorni maggiormente definiti quando entra in gioco l’assolo di chitarra, che nulla toglie all’atmosfera generale del brano, ma che va ad aggiungere un tocco di disinvolta armonia all’insieme, facendo viaggiare l’ascoltatore attraverso le proprie note, inducendolo a chiudere gli occhi e a cominciare a sognare.
L’assolo assomiglia molto ad un tema e variazioni, perché raggiunge delle note alte e poi, mantenendo sostanzialmente lo stesso mood di fondo, si abbassa di tonalità, con note più gravi e una parte in cui sembra di percepire degli effetti, perché si ode un’onda sonora che pervade il tutto attraverso il trascinamento e il prolungamento di alcune singole note con la tecnica del bending, nella quale il polpastrello del dito spinge verso l’alto o verso il basso la corda che si sta suonando.
L’assolo di chitarra non è però definitivo, perché ad un certo punto anch’esso ha una fine e lascia spazio, in conclusione del pezzo, alle testiere o agli archi e al beat di batteria, che man mano si assottigliano e affievoliscono, fino a scomparire, dando una volta per tutte un termine ad una canzone varia e piena di stimolanti variazioni, in cui entrano in gioco diversi strumenti, che non fanno rimpiangere la presenza della voce.
Devo ammettere che l’atmosfera generale del brano, a mio modesto parere, contrasta un po’ con il titolo, perché non la percepisco come triste e disperata, ma come rilassante e rasserenante, forse un po’ malinconica, ma di una malinconia per le cose belle e colorate di suoni.
Se una persona non conoscesse il titolo della canzone e le venisse chiesto di indovinarlo dopo l’ascolto della stessa, credo proprio che non direbbe mai “I Miserabili”, ma qualcosa di più rasserenante, calmo e rilassato: se mi capiterà di intervistare il gruppo, gli chiederò il motivo di questa scelta.
Anche il titolo della canzone seguente non farebbe presagire nulla di buono, dato che essa si chiama “Sei Saltata Dal Quinto Piano Del Mio Palazzo”, cosa che farebbe presagire ad un atto di suicido, alla volontà dell’autore del gesto di togliersi la vita.
La particolarità di questa canzone è a mio parere il beat di batteria, che sembra procedere a passo di marcia: quando ho ascoltato l’intro, ho pensato subito ad una marcia militare, e ho immaginato un manipolo di soldati pronti all’azione.
Questo particolare beat è accompagnato da quelle che sembrano delle tastiere, con delle sonorità avvolgenti, effettate, oniriche e, oserei dire, quasi psichedeliche: il tono e la tonalità di questa introduzione sono piuttosto forti, potenti, e pare di essere in presenza di una chitarra elettrica dal sound molto effettato, robusto, potente e spigoloso.
Tastiere o chitarra che siano, il mood generale mi è parso proprio quello di preparazione ad una battaglia, con un esercito in marcia verso il nemico, accompagnato dal suono militaresco dei tamburi a segnare il passo da tenere durante l’avanzamento.
A tutto ciò, che funge da introduzione, si affianca ad un certo punto il suono di una chitarra elettrica, che assomiglia molto a quello di uno strumento a fiato, per il particolare tono e la particolare tonalità acuta e ficcante che possiede: questo sound mi ha fatto pensare ad un film come “Braveheart”, nel quale si racconta delle gesta dell’esercito scozzese, in combattimento con quello inglese per raggiungere l’indipendenza.
Inizialmente, il sound della chitarra procede sempre nella stessa direzione, secondo una sequenza ben definita, mentre con il procedere della canzone, subisce delle piccole variazioni, che lo rendono ancora più “solenne” e celebrativo.
Mi sento di dire che questa prima parte di brano sia una celebrazione in musica della creatività, perché non è da tutti concepire un brano dai toni e dall’andamento completamente diversi da quelli del precedente: se c’è infatti una caratteristica che contraddistingue questo disco dal altri nell’ambito della musica italiana di oggi è proprio la sua varietà, con una canzone diversa dall’altra e un utilizzo molto fantasioso di una buona gamma di strumenti diversi.
La linea di chitarra elettrica, proprio a questo proposito, subisce una modifica sostanziale dopo circa un minuto di canzone, perché non esegue più singole note, ma una serie di mini accordi che si susseguono in rapidità, con una pennata che si fa più consistente e segue un percorso sia dall’alto verso il basso che viceversa, dando un’impressione di consistenza e solidità.
Questo cambio di modalità esecutiva viene accompagnato da un sound di tastiere che si fa discreto e procede con discrezione, sempre con un suono effettato, avvolgente, che crea un’atmosfera di espansione, di esplosione di sonorità verso un riempimento della base sonora che viene offerta all’ascoltatore.
Dopo un brevissimo intermezzo, poi, costituito dal beat di batteria e da un accompagnamento silenzioso in sottofondo da parte delle tastiere, riprende il riff di chitarra elettrica, con una nuova serie di accordi ancora più serrata, che si sviluppa verticalmente con una velocità di esecuzione maggiore: il tono e la tonalità di questa serie di accordi, con una pennata che si fa estremamente rapida e veloce, diventano sensibilmente più acuti e raggiungono altezze maggiori, come se la battaglia fosse in atto e lo scontro fra gli eserciti stesse avendo luogo.
Abbiamo in questo senso, successivamente, un’interessante progressione armonica discendente, che riporta la tonalità in prossimità di quella della serie di accordi precedente: arriviamo ad una sequenza che può essere definita come la più varia della canzone, perché ci sono delle vibranti alternanze di toni e tonalità, poiché si va in questo senso sia dall’alto verso il basso che viceversa, e talvolta queste due direzioni sono una immediatamente successiva all’altra, creando fantasiose successioni di accordi, che riescono a catturare a sé completamente l’ascoltatore.
La chitarra torna poi a suonare sequenze di singole note, la cui tonalità è analoga a quella del giro di accordi precedente: stupiscono la forza e l’intensità di queste stesse sequenze che sono libere di esprimersi in modi sempre diversi, poiché non esiste alcun altro strumento che le accompagni, ad eccezione di una discreta batteria, che procede sempre a tempo di marcia.
La linea di chitarra, verso la fine del brano, subisce comunque un arresto, lasciando campo libero alle tastiere, che disegnano melodie solenni e dall’andamento discendente, accompagnate da delle brevissime sequenze di suoni, che sembrano provenire da un’astronave aliena in atterraggio.
Le tastiere, poi, vanno in dissolvenza progressiva, consentendo al brano di terminare: curioso è ciò che avviene negli ultimi secondi della canzone, con alcuni suoni di tastiera estremamente effettati, che ci fanno pensare ad un alieno che stia cercando di parlare con noi attraverso il suo linguaggio tipico.
Mi è venuto alla mente a questo proposito il film “E. T. L’extraterreste” di Spielberg, in cui l’alieno protagonista cercava di comunicare con Elliot e la sua famiglia attraverso un linguaggio tutto suo, che poi si trasformava nel linguaggio umano, una volta che l’alieno stesso ne aveva assimilato le sfumature e le particolarità.
Anche in questo caso, mi ha colpito il contrasto tra il titolo del brano e il suo svolgimento melodico: è infatti sempre difficile collegare questi due aspetti in una canzone interamente strumentale, e questa non fa eccezione.
Quella che sembra essere una tematica legata al suicidio, viene svolta melodicamente a tempo di marcia, con una chitarra che suona prima singole note e poi una serie di accordi sempre più serrata, accompagnata dalle tastiere.
Forse il beat della batteria vuole esprimere il conflitto interiore della persona che poi ha compiuto l’insano gesto, così come la melodia, con la sua varietà, vuole raffigurare tutto ciò che può essere passato per la testa alla persona protagonista della canzone, una serie di sensazioni diverse che le hanno affollato la mente, mandandola in confusione.
Può restare utile la metafora del “conflitto” quindi: come un esercito che marcia verso il campo di battaglia, così la persona che vuole togliersi la vita attraversa diverse fasi, tra loro contrastanti, fino alla decisione finale.
La musica di per sé non è infatti altamente struggente e malinconica, ma piuttosto solenne e celebrativa: forse, in questo modo, si vuole appunto celebrare, omaggiare la persona che ha compiuto l’insano gesto, ricordando quanto fosse importante per la propria vita e quanto senso portasse con sé.
Se c’è un elemento non facile in questo disco è proprio quello legato ai titoli delle canzoni: quella che mi accingo a descrivere ora non fa eccezione in questo senso.
Credo che il suo titolo si possa tradurre a grandi linee così: “Hai Visto Che Anche Alla Fine Te Ne Sei Andata”: vista così, anche questa situazione, come la precedente, non dà delle premesse esaltanti, dato che sembra che si parli di un rapporto amoroso finito male.
Ascoltando l’inizio del brano, sembra di sentire i Prodigy di Keith Flint, con la loro mescolanza di musica elettronica e techno: il beat di sottofondo è evidentemente filtrato attraverso degli effetti elettronici, che lo rendono estremamente particolare e spiazzante; su di esso, si installa il sound di quelle che sembrano essere delle tastiere, un suono anch’esso filtrato elettronicamente e anch’esso spizzante e disorientante, perché appare svilupparsi come il suono del clacson della macchina protagonista dell’inquietante serie televisiva di qualche decennio fa, una macchina nera che suonava appunto il proprio inquietante clacson, prima di accelerare verso le proprie potenziali vittime, un po’ come faceva Christine, l’auto protagonista del romanzo cult di Stephen King e del film da esso tratto.
Su questa base, poi, si va ad innestare un riff di chitarra elettrica che entra nel cervello, perché risulta essere ossessivo e piuttosto ripetitivo, creando un’atmosfera di pathos ed attesa spasmodica che succeda qualcosa.
Qualcosa poi alla fine succede, perché la chitarra elettrica cambia registro, cominciando a suonare delle note singole, che sembrano nel loro complesso raccontare una storia di sfida, lotta e strenua difesa di sé.
Questa linea melodica è abbastanza varia, anche se si mantiene sostanzialmente sulla stessa tonalità degli accordi suonati precedentemente, anche se ad un certo punto ha uno scatto verso l’alto, verso delle note acute, che non fanno altro che aumentare il senso di inquietudine nell’ascoltatore.
La parte suonata attraverso delle singole note mi ha ricordato quanto fatto da Joe Satriani all’interno del suo disco “Surfing With The Alien”, la sua opera più famosa e celebrata: egli si esprimeva attraverso delle sequenze di note molto espressive, che creavano pathos e attesa, su di una base ritmica filtrata elettronicamente ed estremamente efficace per i suoi scopi.
Dopo questa parte, la melodia torna indietro, dato che si riparte con i “grappoli” di accordi suonati a distanza ravvicinata, che fanno ancora una volta da preludio ad un nuovo assolo in stile Satriani, un assolo molto espressivo, comunicativo, in grado di generare nell’ascoltatore un senso di profondo coinvolgimento, pur risultando a tratti spiazzante e disorientante: sembra che l’assolo cerchi di raccontare tutto lo struggimento insito nel fatto che lei se ne sia andata e che lui sia rimasto da solo; il nostro gruppo, nell’atto di scrivere e comporre il pezzo, sarà stato particolarmente influenzato da Joe secondo me, perché ogni ascoltatore si può immergere in questo pezzo come se si trattasse di un brano di Satriani, visto che le sonorità e le tonalità sono analoghe a quelle del grande chitarrista, maestro di Kirk Hammett dei Metallica.
L’assolo è piuttosto lungo, e copre una buona parte della canzone: viene espressa una sequenza di note molto evocativa, che porta davvero l’ascoltatore su di un altro mondo, forse alieno, ma comunque onirico e sognante, nel quale si parla un linguaggio che non è di questa Terra.
L’assolo termina comunque prima della conclusione vera e propria della canzone: in sottofondo restano i gruppi di accordi più volte citati, gruppi che improvvisamente si vanno a spegnere, lasciando lo spazio conclusivo ad una breve sequenza di note di tastiera, che vanno a concludere definitivamente il brano.
Siamo arrivati così all’ultimo brano, intitolato “Tu Incontri I Miei Sentimenti”, che sembra riportare la situazione del rapporto amoroso verso un orientamento più positivo e risolutivo.
La sua partenza lascia sconcertati, perché pare di assistere all’inizio di un brano techno di Gigi D’Agostino, con delle tastiere estremamente effettate, che eseguono delle sonorità che potremmo definire “tamarre”, nel senso amichevole del termine.
Questa sequenza fa da vera e propria intro al pezzo, e si compone di una variazione di suoni che sembrano provenire dallo spazio, con delle note che vengono eseguite ad alto voltaggio e che hanno come intermezzo tra loro un accordo meno potente ma ugualmente incisivo.
Come di consueto, ciò che l’intro fa percepire all’ascoltatore si rivela completamente diverso da ciò che gli viene raccontato in seguito: anche in questo caso, abbiamo gli accordi di una chitarra elettrica, che si scaricano con un mood piuttosto rilassato e tranquillo, accompagnati da un sottofondo che è un mix tra un beat di batteria molto compassato e i suoni effettati dell’intro ad un volume minore.
Ad un certo punto, a questa miscela esplosiva si va ad aggiungere una linea di tastiera “normale”, che suona un giro di note molto rapido e ben strutturato: come di consueto, le sorprese non finiscono mai, perché gli accordi di chitarra elettrica piuttosto tosti e pesanti, vengono sostituiti da altri accordi, questa volta più puliti e levigati, quasi che si trattasse di un soft rock alla Bon Jovi.
Dopo tutto ciò, si va ad inserire la voce, con un cantato altrettanto levigato e pulito, che sembra svolgersi nel suo sviluppo quasi come una cantilena, visto il tono piuttosto ridondante che assume, come se fosse un dolce sussurro nell’orecchio dell’ascoltatore, con un eco che lo rende maggiormente evocativo e onirico, sognante.
Ad un certo punto, la vocalità sembra sdoppiarsi, dato che ci si ritrova ad ascoltare una prima line vocale che viene ripetuta come un eco da una seconda linea vocale, come se le due tracce vocali fossero state registrate separatamente e poi giustapposte l’una subito dopo l’altra: questo momento di sdoppiamento con eco crea un certo scompaginamento, perché sembra quasi un errore di registrazione.
Entra poi in gioco un’altra voce, che appare provenire direttamente dal disco “Antichrist Superstar” di Marilyn Manson, per il tono dissacratore e inquietante che possiede: essa recita due soli versi, che bastano a lasciare un’impronta indelebile sulla canzone, proprio per la loro particolarità e per il fatto che sembrino provenire da un predicatore religioso.
Ritorna poi la voce principale, con il suo tono pulito, che inizia ad aumentare i giri del proprio motore, divenendo più struggente e malinconica, ma allo stesso tempo potente e vibrante.
Abbiamo in alcuni punti un’alternanza tra la voce e il suono della chitarra più soft, con spazi lasciati liberi dall’una per l’altra e viceversa, a cui fanno da seguito dei vocalizzi accompagnati da una linea di chitarra elettrica che si fa un po’ più pesante, probabilmente per sottolineare la drammaticità dell’interpretazione vocale stessa: con il procedere del brano, infatti, aumenta lo struggimento insito nella vocalità del cantante, che arriva quasi ad urlare i propri sentimenti e le proprie sensazioni.
Alla chitarra, si accompagna una linea di tastiere che ne segue l’andamento melodico, ripetendone i punti principali: lo stile chitarristico cambia, perché si passa a dei “grappoli” di accordi (già citati in precedenza), che si sviluppano appunto con una breve serie di accordi ravvicinati che si conclude con un accordo finale di più ampio respiro.
Riappare qui la seconda voce “da predicatore”, che pare proprio essere simile a quella di Marilyn Manson quando recitava il ruolo di AntiCristo, perché ha la stessa sfrontatezza e lo stesso carattere risoluto.
La canzone si conclude senza chitarra né batteria, ma, come già successo, con una mescolanza spiazzante di sonorità di tastiera, che eseguono una “giravolta sonora” prima di terminare definitivamente.
Alla fine, ci resta un ottimo album, che è sicuramente rock, ma che non è definibile attraverso una sola categoria del genere rock, perché abbiamo una molteplicità di strumenti che hanno tutti la loro fondamentale importanza nello sviluppo del disco stesso, che si tratti di una chitarra acustica, di una chitarra elettrica, di tastiere o di una batteria.
Come detto, quello che risalta subito all’occhio come grossa peculiarità di questa fatica discografica è la sua grande varietà di stili e di sonorità: non c’è infatti una canzone uguale all’altra, anzi, non c’è un pezzo di canzone uguale a quello successivo, oserei dire.
Le Metamorfosi In Viola sono riuscite a stupirmi anche con questo disco, che cattura tutta una serie di sensazioni e di stati d’animo attraverso una grande e molteplice caratterizzazione vocale e strumentale: non a caso, sono molti i riferimenti ad artisti o a gruppi conosciuti che ho fatto mentre recensivo ciascuna canzone.
E’ sicuramente un disco piuttosto lungo, pur essendo costituito da sole sette canzoni, e il fatto di essere quasi completamente strumentale non lo rende di facile ascolto e comprensione, tanto che io stesso ho fatto fatica a collegare il significato dei titoli di alcuni brani con quello che poi essi esprimevano attraverso la musica.
Siamo comunque di fronte ad un’opera ben realizzata, ben prodotta e ben cantata: è proprio vero che questo album va a scandagliare una grossa fetta dell’esistenza umana, nelle sue cose buone, nelle sue cose cattive e nelle sue problematiche ideologiche.
Ciò che prevale, a livello di mood complessivo, sono un certo struggimento e una certa malinconia, anche se non mancano episodi più “solari” e brillanti: il disco sembra raccontare le difficoltà di un rapporto amoroso, e in certi suoi punti lo fa anche in modo tragico, se pensiamo a lei che si butta dal quinto piano del palazzo di lui e a lei che alla fine se ne va.
Ammetto che non è stato facile cogliere tutte le sfaccettature di un album così complesso e articolato: dal canto mio, ho fatto del mio meglio per interpretarlo secondo la mia visione delle cose e secondo quanto mi è stato dato di capire attraverso i testi, molto ermetici.
Spero di aver fatto un buon lavoro e ringrazio le Metamorfosi In Viola per avermi dato l’opportunità di recensire anche questo disco.
Se la direzione artistica e musicale che hanno preso ultimamente è questa, non vedo l’ora di poter recensire il loro prossimo lavoro, perché quest’album e “Dream Gone” mi hanno stuzzicato particolarmente l’appetito musicale, destando in me un interesse che si era un po’ assopito per la musica italiana.
Intanto, approfitto di questa opportunità per fare i miei personali complimenti al gruppo e per togliermi il cappello davanti alla loro opera: non è assolutamente facile, infatti, comporre un disco così composito ed articolato, in grado di dare molteplici stimoli di diversa natura a chi si trova a recensirlo.
Ringrazio quindi la band e non vedo l’ora di fare una nuova recensione che li riguardi, complimenti.