È inutile, con un artista come Al Vox non si possono mai dormire sonni tranquilli, perché, se si pensa erroneamente di aver già visto tutto, lui con l’episodio successivo entra nuovamente a gamba tesa e riesce a spiazzare completamente, nonostante il fatto appunto che ci si senta ormai preparati a qualsiasi cosa.
Ciò che mi ha colpito inizialmente è la copertina del singolo, che raffigura il nostro compositore secondo le fattezze di un musicista classico dell’ ‘800: assomiglia davvero a Ludwig Van Beethoven, sulla cui sinfonia “La Patetica” è basata la sua nuova canzone.
Davanti alla sua figura viene poi rappresentato il fiore dell’Iris, colorato di un vivace viola e risaltante in primo piano, a simboleggiare il soggetto della composizione del nostro autore, un fiore che di solito viene indicato come portatore di speranza, dal quale prende il nome la donna protagonista della vicenda, a cui Al Vox si rivolge per tutta la durata del brano.
Un’altra cosa curiosa è secondo me la possibilità di leggere il titolo in due modi diversi, a seconda di dove si pone l’accento sulla parola “Spogliati”: si può infatti pensare a degli Iris che a poco a poco perdono i loro meravigliosi petali e che quindi sono “Spogliàti”, oppure all’invito rivolto alla protagonista Iris di spogliarsi, metaforicamente da tutte le brutture che non le consentono di amare veramente, o concretamente, dai vestiti che indossa, pronunciando quindi la parola con l’accento sulla “o”, quindi “Spògliati”.
Devo ammettere anche di aver fatto un collegamento mentale con la canzone più famosa dei Goo Goo Dolls, intitolata appunto “Iris”, un pezzo romantico che sprizza amore e devozione da tutti i pori e che ha fatto innamorare generazioni di ragazzi e uomini con la propria melodia e il proprio testo: dato che uno dei temi del brano del nostro cantautore è l’amore, direi che il collegamento ci può stare perfettamente.
Il brano è scritto a quattro mani con Patrizia Colombo, un’amica che ormai conosco virtualmente da qualche anno, e che mi è nota per le sue ottime capacità compositive e creative, fondatrice dell’etichetta “Pako Music Records”, sotto la quale risiede questo singolo.
Il brano, questa volta, è quindi all’insegna di un ritmo più rallentato e rilassato, tipico delle “ballate” classiche del 19esimo Secolo, delle composizioni operistiche di tre secoli fa: si apre con le note profonde di un pianoforte, in una sequenza che sembra assomigliare a quella dello “Steinway” di John Lennon in “Imagine”, canzone diventata simbolo di un’era e di un modo di intendere la vita e le vicende del mondo.
La storia narrata in questo specifico brano degli anni ’70 è sicuramente diversa da quella raccontata da Al Vox, ma, trattando di pace e amore, può essere in qualche modo e alla lunga ricollegata alle tematiche espresse in “Iris Spogliati”, composizione che fa da corollario ad una vicenda che assume alla fine dei tratti prevalentemente positivi e si conclude in modo lieto.
Molto suggestivo è l’eco che generano le note del pianoforte, come se questo strumento fosse stato chiuso in un ambiente ristretto, che con la sua piccolezza abbia creato un riverbero molto forte, che conferisce alla base pianistica un effetto plastico, “demodè” e antico, in contrasto con la modernità delle sonorità che il nostro cantautore ci aveva proposto fino ad ora.
L’intro di pianoforte è piuttosto lunga, e provoca nell’ascoltatore un senso sia di gaiezza che di malinconia, sia di spensieratezza che di struggimento, in un contrasto di sensazioni che arriva a turbarne l’animo, rendendolo leggermente inquieto: in questo risiede ancora parte della forza di Al Vox, una forza che è in grado di generare sensazioni diverse, apparentemente contrastanti, in chi ascolta.
Le note del pianoforte sembrano essere accompagnate da quelle di uno strumento elettronico, che riproduce una linea melodica quasi malinconica, che rievoca sensazioni e stati d’animo legati indissolubilmente a qualcosa che turba, che fa pensare al passato, che induce la mente a ritornare indietro nel tempo, con un sapore di nostalgia tra le labbra e nella testa.
Dopo i trenta secondi di introduzione, abbiamo il cantato di Al Vox, che non perde tempo e si rivolge immediatamente al soggetto della sua canzone, Iris: le dice che si è salvata da una vita che credeva dannata, con un tono di voce perentorio, quasi tenorile, stentoreo ed evocativo; nei suoi occhi, però, si può leggere e individuare una grande voglia di libertà e di vita.
E molto interessante, a questo proposito, l’uso che il nostro autore e cantante fa della voce: in questo caso, esso dà l’impressione di essere aulico, maestoso, molto modulato in certi punti, forte e deciso, senza mezzi termini, come se stesse raccontando una storia e volesse darne un’idea il più chiara ed evidente possibile.
Al Vox prosegue poi con un tono ancora più deciso, al limite del grido, invitando, con un sottofondo che sembra fatto anche di strumenti ad arco, che rendono l’atmosfera ancora più barocca e sostenuta, la sua protagonista a voltare la propria carta sulle proprie strade perdute, come se la vita e il destino di una persona si potessero ridurre ad un gioco di carte: a mio parere, questo verso nasconde un senso di invito alla riscoperta, un invito a tentare la sorte, sperando di trovare la carta giusta, su strade che di per sé sono già in qualche modo perse, sintomo di una vita che deve rimettersi in carreggiata ed in sesto, attraverso la ricerca della felicità e dell’amore, una felicità e un amore che devono essere riscoperti e ritrovati.
La componente di strumenti ad arco si fa progressivamente più consistente, arrivando quasi a mettere in secondo piano quella vocale, che deve quindi quasi urlare per farsi sentire chiaramente: Iris ha incontrato delle persone che non possono essere considerate tali, forse perché hanno poco o nulla di umano, e somigliano di più agli animali, che si fanno guidare dal proprio istinto e dai propri sensi. Viene invitata, in modo “dantesco”, a guardare e passare, con una citazione dotta della “Divina Commedia” del vate toscano: il suo sentimento si poserà come un’ape su un fiore e lei diverrà finalmente sposa del proprio principe azzurro, coronando il proprio personale sogno; questa particolare composizione dell’artista genovese si differenzia dalle precedenti perché manifesta una certa positività, un senso di bellezza e armonia che si faticava a ritrovare all’interno di ciò che ci aveva proposto in passato.
Pensiamo a questo proposito alla figura del giullare, deriso e preso in giro da tutti, in una vita di strada senza nessuna apparente possibilità di rivalsa.
A questo punto, la vocalità diventa più struggente e malinconica, come se a cantare fosse un’anima inquieta e perduta, che con un’aria di sfida cerca di provocare chi la ascolta, di pungere sul vivo, di colpire con un senso di apparente distacco il proprio uditorio: si dice che un corredo di fiori blu, simili a quelli presenti sulla copertina del singolo, è la sua salvezza, ciò che cercava, quindi che nel matrimonio con il suo principe si realizzano le sue più rosee aspettative, e riesce a trovare ciò che inseguiva da molto.
Allo stesso tempo, il corredo di fiori va a rappresentare il ricordo che le ha comunicato che lei amava il suo consorte, qualcosa di molto simile ad un flashback che riportava indietro nel tempo, alle origini del suo amore e della sua devozione.
Il principe esulta con la sua Iris, ritornando ad apprezzare la bellezza della vita, con la sua dolce metà che si incarna in un nome, un fiore e una stella cometa, come quella che ha guidato i Re Magi alla scoperta del luogo in cui era nato Gesù e che ora indica la strada di casa: Iris è la sua stella, il battito accelerato di un cuore devoto, di un cuore che batte davanti a lei perché colmo d’amore e di speranza di stringerla ancora a sé.
Il consorte di Iris a questo punto non si ferma più, arrivando a manifestare palesemente il proprio amore per lei, come emblema della sofferenza e della saggezza: il tono del cantato diventa qui maggiormente declamatorio, abbandonando lo struggimento, per fare posto al racconto di una vicenda profondamente umana e ricolma di buoni sentimenti, di una saggezza che si può ritrovare anche in mezzo alla sofferenza.
Iris è ricolma dunque di sofferenza, una sofferenza che però porta alla salvezza, perché permette di mondare l’animo da tutte le impurità che lo contaminano e lo rendono “sporco”, di eliminare tutte le nefandezze subite, in nome di un amore sincero, che più sincero non si può.
La vocalità di Al Vox, in questi ultimi versi, assume le fattezze di un canto disperato, dai toni acuti e dalla potenza declamatoria disarmante: la parola “salvezza” non è solamente cantata, ma viene addirittura “trascinata” per alcuni secondi, estendendone la lunghezza per un po’, in un canto che appare glorificato e sostenuto dalla consapevolezza di avercela fatta, di essere arrivati a colpire l’obiettivo che ci si era prefissati di colpire.
C’è poi una sequenza finale, solo strumentale, che pare orchestrata da George Martin in persona, il quinto Beatle, colui il quale prendeva le composizioni grezze dei Fab Four e le armonizzava attraverso sequenze di archi ed ottoni: si possono udire, senza aver paura di esagerare, sequenze che sembrano tratte nientemeno che dall’album “Sgt. Pepper”, con uno strumento che può apparire come un particolare xilofono e che suona una sequenza di note ripetuta, in mezzo ad un florilegio di altri strumenti ad arco, che creano un sottofondo maestoso e sofisticatamente potente.
Il brano si conclude quindi con questa sequenza, molto articolata per la presenza di vari strumenti e per la complessità intrinseca del loro intreccio: abbiamo quindi una conclusione celebrativa degna assolutamente di nota, che riporta alla mente, come detto, le sedute in sala di registrazione dei Beatles con il loro prode George Martin, colui il quale ne ha costruito le fortune con le sue orchestrazioni e con i suoi arrangiamenti.
La sequenza conclusiva va sfumando, non ha una conclusione netta e radicale, come secondo me è giusto che sia, perché la bellezza non va troncata improvvisamente, ma va fatta pian piano scomparire in modo sfumato, per dare il tempo all’ascoltatore di gustarsela fino in fondo e di assaporarne ogni singola nota ed ogni singolo attimo.
Alla fine, ci resta un ottimo brano pop che ammicca in modo consistente alla musica classica, se è vero che la base sonora è costituita dalla “Patetica” di Beethoven: Al Vox riesce dunque a stupire per l’ennesima volta, perché secondo me sono veramente in pochi quelli che come lui avrebbero pensato di sovrapporre un cantato pop ad una melodia di impostazione classica.
Io lo ritengo da sempre un artista geniale nel proprio genere, che riesce sempre ad inventare qualcosa di nuovo quando tutti ritengono esaurita la sua vena creativa, riemergendo dal fondo del mare musicale con nuove e particolari invenzioni, trovate e genialate incredibili, senza le quali sicuramente ciascuno di noi si sentirebbe più povero.
Faccio quindi di nuovo i miei complimenti ad Al Vox, chiedendogli di non smettere mai di stupirsi e di stupire, di meravigliarsi e meravigliare: tanto di cappello ad un artista di questo calibro, che sa sempre reinventarsi e rinnovarsi, all’insegna di un processo di crescita intellettuale e musicale sempre in evoluzione e mai fermo nello stesso punto.
Il suo sguardo è fisso in avanti, verso l’infinito e oltre. Grazie.