Recensioni

Sorgente – Pambianchi

Devo ammettere che, quando ho visto la copertina del nuovo singolo di Pambianchi che mi appresto a recensire, ho pensato subito che l’immagine del nostro cantautore rievocasse in qualche modo quella di Brian Molko, cantante androgino dei Placebo, perchè ho notato qualcosa in quello sguardo concentrato sul cielo, che guardava verso l’alto con tensione e speranza, che mi ha fatto pensare all’aria trasognata e sognante che il famoso cantante possiede quando si esibisce dal vivo, ma anche nei video delle canzoni del proprio gruppo. Oltre a questo, ho notato anche una certa somiglianza dell’immagine di profilo di Pambianchi con questo artista: ho quindi riflettuto sul significato che poteva avere un titolo come “Sorgente”, che secondo me si apre a molti significati e a molte sfaccettature. Io credo che la sorgente a cui il nostro artista vuole che tutti si abbeverino per trarne beneficio sia quella dell’amore incondizionato, il sentimento che fa scaturire da sé tutti gli altri, che origina tutte le emozioni umane, il punto di partenza per ogni tipo di connessione tra l’umano e il trascendentale.

Il look che Pambianchi mostra nelle fotografia mi ha ricordato un po’ quello di David Bowie, quando si identificava nel personaggio di Ziggy Stardust, una sorta di alieno giunto sulla Terra da un pianeta lontano, che si trovava a narrare storie di avventure spaziali ai propri ascoltatori e che, come il nostro cantautore, aveva lo sguardo sempre rivolto verso l’alto, a cercare nell’infinito una risposta alla propria condizione di essere finito, in un interessante contrasto tra due concezioni diverse dell’esistenza.

Se facciamo riferimento poi alla parte melodica della canzone, vediamo che si tratta di musica preferibilmente dance, o meglio eurodance, della quale l’Italia è stata una nazione capostipite nel passato, ma che nel corso degli anni ha progressivamente dimenticato: mi vengono in mente a questo proposito i nomi di Gabry Ponte e di Gigi D’Agostino.

A questi tratti marcatamente pop e ballabili, fa da interessante corollario la presenza integrativa di sinfonie d’archi e di un poco di musica etnica, cosa che crea un mix piuttosto interessante nella sua varietà: Pambianchi si non limita ad usare le potenzialità commerciali della dance per colpire i propri ascoltatori, ma li porta anche su altri mondi, per farli viaggiare ancora più intensamente con la testa e per fargli riscoprire il dolce gusto della contaminazione, che a mio parere è una delle basi essenziali su cui costruire un buon brano musicale.

Il testo si apre a diverse interpretazioni, è molto evocativo e poetico, e nasconde in sé una riflessione piuttosto profonda sul nostro essere mortali, sulla nostra condizione di provvisorietà su questa Terra.

Il nostro cantautore, fin dai primi versi, va immediatamente al sodo, ponendo una domanda che potrebbe mettere in crisi chiunque, perché solitamente noi trascorriamo le nostre giornate focalizzati sul momento presente, senza pensare al futuro e al tempo che ci rimane da vivere. Si tratta di una domanda spiazzante, a cui trovare una risposta soddisfacente è molto difficile: posso dire che, da parte mia, questo pensiero a quanto mi resta ancora da vivere non mi ha mai colpito più di tanto. Solamente in poche occasioni, quando magari mi sono trovato a fare dei bilanci e a pensare al futuro, questa riflessione mi ha toccato, e la risposta che ho trovato è sempre stata che mi rimaneva ancora molto tempo da vivere e che quindi potevo rinviare a data da destinarsi questa seppur importante riflessione.

Nel verso successivo, Pambianchi si fa un po’ portavoce di questo mio pensiero in proposito, perché afferma che tutti vivono senza rendersi conto di essere solo di passaggio in questa vita: l’artista mostra il suo interesse per il mondo astrale, che lo collega ancora una volta a Bowie, quando parla appunto del fatto che tutti noi siamo inseriti in una geometria astrale, che il nostro modo di essere e di vivere è condizionato fortemente dalla disposizione reciproca dei pianeti, in una struttura dello spazio che fa da avvertimento per il gran finale, che io interpreto essere la morte. Personalmente, devo ammettere di non credere molto all’astrologia, a differenza del nostro Pambianchi: secondo me siamo noi gli unici artefici del nostro destino, e le congiunzioni astrali non possono andare a modificare questo assunto.

La riflessione del nostro cantautore continua poi sulla stessa falsariga, passando a meditare su un mistero che in un solo momento si è trovato ad apprendere, cioè quello dell’Aldilà, che rappresenta un grande enigma come dice lui, perché è legato a diversi tipi di interpretazioni e credenze, passando dall’articolazione in tre “ambienti”, Inferno, Purgatorio e Paradiso della religione cristiana, fino alla teoria della reincarnazione, propria di altre religioni.

Lui si sente come una sorta di profeta, investito da una luce che gli permette di decifrare il destino dell’umanità, di dare un senso alla vita delle persone, uno scopo agli affanni e alle preoccupazioni quotidiane.

Entra in gioco poi ancora la dimensione astrale, perché vengono chiamate in causa le stelle del firmamento, verso le quali il nostro artista tiene ben fisso lo sguardo, quasi per orientarsi e per dare un senso alla propria vita, in una sorta di contemplazione mistica di ciò che si trova sopra la sua testa. Queste stelle brillano seguendo un ritmo universale, che si dispiega in tutta la propria forza secondo una grande e vasta miscellanea di culture, mondi e universi paralleli.

C’è poi un velato riferimento alla religione, perché Pambianchi introduce la figura dell’albero della vita, che splende di luce propria, riflettendo quella che lo guida e quella che irradiano le stelle: questo formidabile albero, da cui può essere nato tutto ciò che ci circonda e dal quale possiamo essere nati anche noi, ci fornisce un insegnamento fondamentale, che la vita è vuota se non viene vissuta con amore, la forza che, come detto prima, è all’origine di tutti i sentimenti, proprio come l’albero è all’origine di tutto.

Arriviamo poi ad un’altra domanda fondamentale, che mi fa immaginare che Pambianchi creda in qualche modo alla teoria della reincarnazione, perché chiede al suo interlocutore immaginario se si sia mai fermato a pensare alle vite passate, sia legate alla sua condizione che a quella del nostro artista.

Senza la luce giuda, la luce dell’albero della vita e del firmamento delle stelle, l’esistenza rischia di diventare un inverno freddo che porta con sé un senso di sconfitta, perché trascorso a combattere per cambiare qualcosa che in realtà era già scritto da tempo: tutto diventa chiaro come l’alba, se ci si ferma un attimo a pensare e a riflettere, guidati da quel bagliore da cui si genera tutto.

Viene poi nominato quello che sembra essere un pianeta, non so se reale o immaginario, chiamato Xibalba: non so perché, ma questi versi mi hanno riportato alla mente il film e il libro de “La Storia Infinita” di Ende, con i suoi mondi fantastici, generati dalla fantasia del protagonista nell’atto di leggere un libro e di identificarsi nella storia narrata, e popolati da creature e mostri di vario genere.

Il confine fra morte e vita appare essere molto labile, e viene alimentato all’interno del ciclo della creazione, e qui si ritorna ad un accenno ad immagini appartenenti alla religiosità.

Come detto, l’Aldilà e il nostro destino appaiono come dei grandi enigmi, ma Pambianchi si sente in grado di decifrare il destino dell’umanità, illuminato da una luce interiore che lo fa risplendere e lo rende sapiente.

Le stelle del firmamento fanno da accompagnamento a questa consapevolezza, brillando secondo un ritmo ben preciso, universale, facendo da corona allo splendido albero della vita, che ci insegna che tutto è vuoto se non c’è l’amore.

Tutti siamo, volenti o nolenti, accomunati da un destino comune, perché siamo destinati a morire un giorno, anche se non sappiamo esattamente quando e dove questo avverrà: è quindi necessario proseguire nel proprio percorso, andare avanti a testa alta, in modo che il proprio corpo e il proprio essere vengano proiettati come ombre della luce guida, trasformandosi in un’energia pura e non di questa Terra.

Il brano si conclude ribadendo la consapevolezza che ha guidato Pambianco fin dall’inizio, quella cioè di sentire una luce dentro di sé, una luce che gli permette di specchiarsi all’interno dell’universo, quasi di scoprire un altro io nella vastità del creato.

L’ultimo verso, che pone fine alla riflessione sulla vita e sulla morte del nostro artista, è piuttosto spiazzante, forse il più spiazzante di tutti, perché afferma che la risposta a tutti gli interrogativi che ci si è posti all’interno della canzone sta in ognuno di noi: ogni persona deve trovare dentro di sé la forza per dare una risposta che conferisca un significato personale ma molto importante al senso della vita e all’esistenza delle persone su questa Terra.

Non è quindi necessario cercare la risposta in luoghi e persone magari sconosciute, ma la chiave che apre ogni porta è posta nel taschino della giacca di ogni persona: è sufficiente fermarsi a pensare e a ricercare, cercando di dare un senso a tutto ciò che ci circonda e proiettando tutto l’universo come se fosse l’ombra della propria luce interiore e lo specchio in cui si riflette la propria immagine.

Alla fine, ci resta un buon brano dance, con contaminazioni orchestrali e etniche, nel quale la voce aliena, soprannaturale, sconvolgente e spiazzante di Pambianchi ci guida in una riflessione approfondita sul significato della vita e della morte, dell’Aldilà e della reincarnazione, sempre con una visione delle cose molto legata e annodata a doppio filo con quella dell’universo che ci circonda, con le congiunzioni astrali che sembrano guidare le nostre azioni, con il bilanciamento perfetto delle posizioni dei pianeti che condiziona le nostre scelte.

La canzone è ben prodotta, ben cantata e ben suonata: possiamo considerarla un piccolo gioiellino dance che ha contribuito a riportare in auge un genere che in Italia era caduto un po’ nel dimenticatoio, dopo i fasti del passato.

Il testo del brano si presta ad una miriade di interpretazioni, e io ho naturalmente fornito la mia personale, ma ciò che deve restare fisso nella mente di ognuno è secondo me il fatto che l’amore è la forza che guida e governa tutto: senza amore, la vita sarebbe vuota e grigia, un inverno in cui si parte già sconfitti, che ci sembra di aver già vissuto in una delle nostre reincarnazioni precedenti.

Pambianchi secondo me dimostra di avere delle ottime capacità compositive e di scrittura: non è normale che un ragazzo giovane si metta a fare delle riflessioni sulla vita e sulla morte, sull’universo e sui pianeti, sulle stelle e sull’albero della vita. Tutto ciò è indice di una grande capacità riflessiva e immaginativa, che sa districarsi tra le difficoltà di questo mondo, ponendo e ponendosi delle domande che vanno direttamente a toccare il senso ultimo della vita, ricordandoci che siamo solo di passaggio in questo mondo, e che quindi dobbiamo dare più amore che possiamo agli altri, diffondere questo sentimento a macchia d’olio, perché solo in questo modo riusciremo a irrigare un terreno che appare secco e arido.

Ognuno di noi è capace di brillare di luce propria, di emettere una luce che è capace di dare un senso alle cose: sta alle singole persone avere la forza e la capacità di trovare e accendere questa luce, per far risplendere l’albero della vita sotto il firmamento delle stelle, che brillano ad un ritmo che non è di questo mondo, ma proviene da pianeti lontani e ancora sconosciuti.

La risposta alle domande universali è dentro ciascuno di noi: è bello sforzarsi di cercarla e trovarla, per dare un’interpretazione personale, ma comunque autentica, di ciò che avviene e del senso della vita.

La sorgente che dà il titolo alla canzone siamo noi: non dobbiamo dimenticarlo e continuare a cercare con tutte le nostre forze.

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