Recensioni

Lambrooklyn – Mico Argirò

Argirò è un artista che si diverte a giocare con le parole e il loro significato, creando combinazioni inaspettate e a volte di complessa interpretazione. Già il titolo della canzone è tutto un programma in questo senso, perché fonde il nome di un quartiere di Milano, cioè Lambrate, con quello di una città americana, cioè Brooklyn, quella del famoso ponte.

Questo mix crea suggestione e interesse nel potenziale ascoltatore, incuriosito da un titolo così fantasioso: è chiaro che non si può comparare, in termini di bellezza, Lambrate con Brooklyn, ma mettere insieme questi due nomi dà l’idea di qualcosa che potrebbe essere bello e splendente e che invece è un po’ grigio e monotono.

Il sound del brano è un po’ gitano, un po’ flamenco, con la chitarra acustica che fa la parte del leone e disegna melodie molto affascinanti ed evocative.

L’artista colloca la sua narrazione in musica appunto nel “barrio”, quindi nel quartiere (interessante l’uso di un termine straniero, sudamericano, che fa da ottimo accompagnamento al suono della chitarra) di Lambrooklyn, in cui lui si trova a camminare da solo, ben oltre il coprifuoco imposto dalle regole anti-Covid: questa solitudine, senza la donna che ama, sembrerebbe quasi normale, ma in realtà non lo è. Nella particolare sera in cui lui si trova a vagare solitario per il quartiere, questa assenza ha un peso maggiore.

Argirò, che si presuppone sia il protagonista della canzone, è infastidito dal fatto di non potersi bere una birra, vista la chiusura anticipata dei locali, ma sembra interessato al sassofono che uno dei suoi amici sta vendendo: nonostante tutto questo, lui ha intenzione di combattere, di ribellarsi, cosa che lo fa restare ancora più solo, come se fosse normale che il nemico da combattere sia proprio una sua canzone, ritenuta non indispensabile, quasi inutile, dalla propria amata.

Abbiamo poi un sostanziale ed evidente cambio di sonorità e di ritmo, in quello che appare come una sorta di ritornello: viene introdotta una breve melodia elettronica, o comunque creata da tastiere filtrate attraverso dei sintetizzatori, e l’autore parla non a caso di Bowie, un artista che ha fatto del trasformismo una matrice stilistica, come Argirò fa del giocare con le parole una chiave dei propri testi. Lui vorrebbe infatti quello che si presume essere il poster di Bowie nella propria stanza, insieme ad un’esplosione di colore rosa: se non sbaglio, in alcune sue esibizioni, David ha indossato un completo tutto rosa, e magari il riferimento è proprio a quello, oppure alla pelle diafana che il cantautore inglese mostrava sempre.

I desideri non finiscono comunque qui, perché Argirò vorrebbe anche che il vino che sta bevendo, forse proprio nella sua stanza, si trasformi in sangue, in una metafora che sembra attingere dalla religione cattolica, o solamente ritornare al proprio pianeta: questa affermazione riporta subito alla mente dell’ascoltatore il richiamo a Bowie e alle sue canzoni “Starman” e “Space Oddity”, nelle quali faceva esplicito riferimento al mondo dello spazio.

Sembra proprio, tirando le fila, che la notte che il nostro protagonista si sta trovando a vivere non lo soddisfi più di tanto, e per questo vorrebbe metaforicamente bruciarla, per farla lentamente sparire e dimenticarla.

Poi la canzone ritorna sulla melodia iniziale, e si ripresenta la chitarra flamenca e gitana, con delle percussioni che sembrano fatte battendo le mani nude su una tavola di legno, come fanno gli artisti di strada: ci si ritrova ancora nel quartiere che dà il titolo al brano, con il kebabbaro che ha chiuso anche lui, quindi Argirò si trova costretto a digiunare, sempre ritrovandosi solo, come se fosse normale vivere per lavorare, un’espressione che vuole forse giustificare in qualche modo il suo essere solo e il suo vagare per il quartiere a tarda ora. Questa interpretazione però contrasta con il verso successivo, in cui lui dice che non accetterà mai proprio il fatto di vivere per lavorare: questo verso mi ha riportato un po’ a quanto lui diceva precedentemente, che cioè voleva ritornare al proprio pianeta, cosa che secondo me esprimeva un desiderio di libertà, di ritorno alle origini, di ritorno a casa, dove era possibile fare veramente quello che si desiderava, e non si era costretti a farsi sfruttare per poter vivere dignitosamente.

Si ritorna quindi alla variazione melodica precedentemente descritta, con la ripetizione di quello che appare essere come una sorta di ritornello, anche se con un’espressione diversa da quella del primo: ci sono ancora Bowie e l’esplosione rosa, così come il desiderio che il vino diventi sangue, ma questa volta si aggiunge la voglia di non guardare il TG1. Devo dire che mi sono ritrovato molto in quest’ultimo verso, perché anch’io provo un’idiosincrasia verso i telegiornali, che secondo me danno solamente notizie drammatiche, senza evidenziare mai quel che di bello accade nel mondo: forse questo è anche il sentimento che Argirò ha provato mettendosi davanti alla televisione.

Fatto sta che il desiderio di bruciare la notte che sta vivendo permane: evidentemente, la solitudine e il rimpianto sono troppo forti e vorrebbe cancellarli una volta per tutte.

La variazione melodica, questa volta, prosegue anche oltre il ritornello, andando a concludere la canzone, che termina in modo netto, quasi improvviso, senza un elemento che segnali veramente una conclusione, come ad esempio un rallentamento o l’assenza di musica, per lasciare la sola voce libera di esprimere i pensieri finali dell’autore.

L’andazzo è sempre il medesimo: lui cammina da solo, come se fosse una cosa normale non avere la propria donna con sé, ma questa volta non è la notte che dovrebbe bruciare, ma sono lui e la sua donna a dover prendere fuoco. Questa mi pare come una chiara metafora, che sta a indicare secondo me la voglia di ricominciare tutto da capo, cancellando la solitudine, il digiuno, la separazione, e condividendo un destino comune, che sia un segno evidente dell’amore che si prova ciascuno per l’altro.

Alla fine, ci resta un brano che si presta a molteplici interpretazioni e che può rivelare molteplici significati: io ne ho dato l’interpretazione che ho percepito e che ho sentito dentro. C’è una grande fantasia nell’uso delle parole e delle metafore, cosa che può da un lato spiazzare l’ascoltatore, ma dall’altro anche incuriosirlo, richiedendone l’impegno per andare oltre la superficie delle cose, per andare oltre quello che sembra il significato superficiale dei versi, per trovare il significato che la canzone possiede per sé stessi.

A livello melodico, c’è una stuzzicante alternanza, come detto, fra una parte flamenca e gitana e una parte più “tastieristica” e elettronica, che crea un bel contrasto e rende interessante il brano, che forse sarebbe un po’ monotono se suonato solo con la chitarra acustica, anche se le sue dolci note sanno cullare e stimolare l’immaginazione e la parte onirica di chi ascolta.

Mi ha colpito la capacità di Argirò di inserire molte immagini, molti significati all’interno di una canzone piuttosto breve, dalla durata contenuta, manco fosse un pezzo punk. Se le parole che si usano sono già di per sé esaustive, se si ritiene che riescano ad esprimere bene il messaggio che si vuole comunicare, è inutile dilungarsi troppo.

Bene ha fatto quindi a mio parere l’autore a contenere la durata del brano, anche se gli ha dato una conclusione quasi inaspettata, che potrebbe lasciare spiazzato l’ascoltatore: mi sto pian piano rendendo conto che ad Argirò piace uscire un po’ dagli schemi, proponendo sempre qualcosa di diverso e di interessante, con la capacità di stupire e lasciare un po’ interdetti, di far concentrare sul possibile significato delle parole e delle frasi, che a volte assumono un’importanza maggiore di quella della base melodica, perché sono il centro focale del brano, dato che richiedono all’ascoltatore di andare oltre i pensieri superficiali e di approfondire le tematiche proposte.

Spero che il cantautore continui su questa strada, perché mi piace essere chiamato a interpretare le parole di una canzone, ad andare oltre quelli che possono essere i significati di superficie, scavando più a fondo e facendo un salutare sforzo immaginativo, che può davvero portare su un altro pianeta, su un’altra dimensione, dove la fantasia, i colori e le immagini la fanno da padrone, insieme alla capacità di stupire e meravigliare. Sono convinto che la meraviglia sia una delle emozioni che guida il nostro essere e il nostro agire: se viene creata da parole messe in musica, ancora meglio.

Condividi questo articolo

Invia una risposta

Il tuo indirizzo mail non verrà reso pubblicoI campi richiesti sono contrassegnati *