Recensioni

St3rzo – Max Casali

Già dal titolo si può intuire la vena ironica e dissacrante dell’autore, a cui sembra piacere molto combinare tra loro parole diverse, per creare titoli dai significati in apparenza ambivalenti, che poi si rivelano in tutta la loro forza. Viene inserito il numero tre perché si tratta del terzo album del cantautore, all’interno della parola “sterzo”, perché forse si vuole indicare alle persone in ascolto un cambiamento di rotta, un allontanamento da tutto ciò che inquina la nostra esistenza nel Bel Paese.

Max Casali si esprime sempre con delicatezza, bussando in punta di piedi alle porte del nostro cuore, ma non le manda certo a dire: nei testi è presente più di un riferimento alle brutture che l’Italia porta con sé ormai da anni, con testi di denuncia sociale che fanno riflettere: l’accento è quindi posto sulle parole, più che sull’arrangiamento e sulla produzione delle canzoni: non è intenzione dell’autore creare piccoli gioielli di perfezione stilistica, ma renderci edotti di quello che ci circonda, utilizzando dei testi solo in apparenza banali, ma che rinchiudono in sé una grande potenza espressiva e di denuncia, un po’ come faceva ai suoi tempi Rino Gaetano.

L’album si apre con la canzone “Segnali di noi(a)”, che ci parla attraverso quello che sembra essere il suono di una fisarmonica, accompagnato da qualche accenno di pianoforte. Il mood del brano appare piuttosto allegro, frizzante, stimolante: dietro tutto questo ci sono però una serie di ammonimenti e consigli per i giovani, su come vivere nel modo giusto la propria vita, che molte volte è caratterizzata da una grande noia, che porta a fenomeni come la dipendenza dai social, il bullismo e la dipendenza dalle droghe, con i genitori ignari alle finestre, perché non si accorgono o più probabilmente non si vogliono accorgere, perché la verità può far molto male, soprattutto se legata ai propri figli.

La canzone successiva si apre con una serie di accordi di chitarra che ricorda una canzone di Vasco Rossi, e poi viene impostata su un mood piuttosto simile a quello del brano che la precede, forse con una linea di percussioni più pesante e presente. L’argomento è la crisi della cultura, dell’arte: ci sono pochi paladini che difendono la purezza della scrittura, ma il resto delle persone sembrano succubi dei contenuti spazzatura che gli vengono propinati, che non hanno nulla di concreto da offrire, ma che anzi rischiano di compromettere per sempre il gusto per il bello delle persone. Curioso è il titolo, “Contenudi”, un mix fra la parola “contenuti” e la parola “nudi”, quasi a voler sottolineare la volgarità di fondo di quello che oggi viene spacciato come arte, che in realtà nasconde sotto di sé qualcosa di inaccettabile, inguardabile, ma che riesce comunque a penetrare nelle coscienze di un popolo che si è ormai talmente abituato al brutto che non reagisce più, in modo che i creatori di questi “contenudi” fanno soldi a palate, anche con l’aiuto del web, che si rivela purtroppo essere un mezzo di diffusione molto potente, in grado di influenzare i pensieri dei cittadini in un modo così grande e evidente, che sembra impossibile che solo in pochi abbiano il coraggio di reagire.

Il terzo brano sembra partire con un ritmo marziale, prendendo poi una cadenza gitana, quasi simile a quella di una taranta, con quelli che sembrano dei tamburelli, una chitarra acustica e delle percussioni che seguono un ritmo sincopato, con frenate e riprese, accordi corposi e pieni, alternati a pause e vuoti. Vengono narrate e quasi celebrate le imprese del famoso ladro Arsenio Lupin, che non molla mai le proprie vittime, e le continua a seguire anche se le ha già derubate, che non fa distinzione di classe fra sguatteri e principi: anzi, sembra che proprio queste due categorie di persone siano tra le sue vittime preferite. Devo dire che ho sempre straveduto per il personaggio di Lupin, forse anche a causa dei moltissimi suoi cartoni che ho guardato da piccolo, ma probabilmente perché mi piaceva l’idea di un ladro fuori dagli schemi, donnaiolo, furbo e astuto come una volpe e sempre pronto a difendere i propri compagni. Di lui ho in mente anche qualche immagine legata ai film, che lo hanno sempre rappresentato con vestiti d’epoca molto eleganti, in un immagine piuttosto contrastante con quella del cartone animato, che rappresentava un ladro più moderno.

Abbiamo poi la canzone “Bulli e Rupe”, che combina dei dolci accordi di chitarra acustica, un pianoforte delicato e delle strofe parlate. Domina il colore bianco, e sembra che l’autore in questo caso parli delle vittime del bullismo, che si sono tolte le vita perché non riuscivano più a sopportare il peso delle vessazioni a cui erano sottoposte. Queste povere anime sono paragonate ad angeli bianchi, che apparentemente erano circondati da tanto amore, che però non è riuscito a dargli la forza necessaria per sopravvivere. La reazione di Max Casali a tutto questo è molto forte e radicale, perché invoca pene molto severe per i responsabili, affermando che la vergogna maggiore la devono subire ora loro, che sono rimasti su questa Terra, circondati da un’onta di rimorso e disperazione.

Il titolo della canzone fa riferimento a quello di un celebre film, ponendo al posto delle “pupe” una “rupe”, probabilmente quella da cui si sono gettate le vittime del bullismo.

Segue poi il brano “Far-Web”, che, attraverso una base melodica essenziale, costituita da percussioni e da quello che sembra essere un sintetizzatore, con l’accompagnamento di archi, denuncia i cosiddetti “leoni da tastiera”, le persone cioè che sui Social si divertono a sputare veleno sugli altri, a sputare sentenze senza appello, a rovinare la vita delle altre persone, attraverso ricatti e insulti, che hanno un effetto molte volte irrimediabile e trasformano una vita che era serena in un qualcosa che non può più essere considerato come una vita.

Casali, all’inizio della canzone, fa degli esempi di rete, parlando di quella della porta di calcio e di quella che tesse un ragno, per poi dire che l’uomo invece usa la sua rete per commettere degli atti di cattiveria che spesso restano impuniti, quasi che il Web fosse una cittadina del Far West, in cui bisogna per forza sparare a zero sull’altro, considerarlo con cattiveria come un avversario da demonizzare: un esempio significativo di quello che vuole comunicarci è proprio il titolo, che mette insieme le parole “Far West” e “Web”, facendo apparire la Rete come un vero e proprio campo di battaglia, in cui è necessario infierire senza pietà, senza esclusione di colpi, per procurare il maggior danno possibile a quello che viene considerato come un ostacolo, come qualcuno da fronteggiare e sconfiggere. A mio parere questa è una delle peggiori piaghe moderne, e l’autore fa benissimo a denunciarla senza mezzi termini, perché chi lo ascolta non cada in tentazione, ma mantenga dei comportamenti sani e corretti quando naviga.

La canzone successiva utilizza come titolo un’espressione quasi gergale, ma che rende molto bene l’idea del suo significato e del suo messaggio: “Di-straforo” indica un modo di comportarsi che aggira le regole costituite, che si fa beffe di un sistema di norme che dovrebbero regolare i comportamenti stessi. L’argomento del brano è il malfunzionamento della giustizia italiana: la base musicale è piuttosto soft, con un sottofondo delicato di pianoforte e una parte di percussioni che non invade il campo, ma che si tiene ai margini, trasformando la canzone in una sorta di nenia, in qualcosa che culla l’ascoltatore, in un’atmosfera rilassata e composta. Nonostante questo, come detto, l’argomento trattato è molto serio: si parla dei tempi lunghi dei processi, dei colpevoli che diventano magicamente innocenti a causa di connivenze e strategie che li salvano dalla condanna, del fatto che si parli di una riforma da decenni e che sostanzialmente non si sia fatto ancora nulla di concreto, delle carceri affollate in mezzo all’indifferenza. Le condanne o non ci sono perché i reati vanno in prescrizione, oppure vengono attenuate, rese più leggere, da accordi presi alle spalle delle vittime, che restano con poche speranze, in attesa di giustizia. Si tratta di una denuncia molto forte, che in un Paese come il nostro non deve cadere nel vuoto, ma ricevere anzi la considerazione che merita: la questione è scottante e Max è molto coraggioso affrontandola, perché rischia di scottarsi, ma in questo caso è giusto schierarsi, perché le famiglie in attesa di giustizia sono troppe.

Si passa poi al brano “Il de(re)litto perfetto”: anch’esso nel suo titolo gioca con le parole, perché fa pensare sia a un atto illegale commesso in modo esemplare, che a una persona che non ha quasi più nulla di umano, che ha rovinato per sempre la sua vita, che vive di stenti e ai margini della società.

L’interpretazione della canzone può quindi essere duplice: si può dire che l’autore faccia riferimento sia al mondo della politica nostrana, in cui gli uomini politici percepiscono vitalizi da capogiro e non fanno nulla per lo Stato, anzi passano il tempo a lamentarsi, sia al mondo della pubblica amministrazione, in cui purtroppo troppo spesso si vedono scene che vanno contro la morale del lavoro, con i cosiddetti “furbetti del cartellino”, che timbrano per poi fare tutto tranne che il mestiere che sono chiamati ad assolvere. La cosa bella è che queste persone, piuttosto che chiedere scusa per i propri comportamenti, si sentono addirittura delle vittime del sistema, si fanno passare come, appunto, dei derelitti: diciamo che questo è anche il giudizio che l’artista dà di loro, secondo me a ragione, perché invece che costruire una società più sana, fanno di tutto per disinteressarsi delle sorti di questa stessa società, lasciandola in balia di furberie e varie fazioni di interesse.

La base melodica è costituita da accordi di chitarra piuttosto decisi, vibranti, con una linea di percussioni che si ispessisce: c’è comunque un momento, all’interno del brano, in cui tutto appare per un attimo smorzarsi, affievolirsi, in cui il suono della chitarra si fa delicato e arpeggiato e le percussioni spariscono, lasciando spazio solo alla voce. Questa variazione è piuttosto interessante, perché contribuisce a creare uno stacco, una pausa nella canzone, riuscendo a stupire l’ascoltatore e indirizzandolo ad un ascolto ancora più attento della canzone stessa.

“Non so perché” è il titolo della canzone successiva: sembra di capire che si parli del rapporto tra due persone, in cui lui si pone delle domande, dicendosi che non riesce a capire il perché siano avvenute e avvengano delle situazioni apparentemente inspiegabili, quando un deciso chiarimento o un bacio fresco potrebbe essere la panacea di tutti i mali. Il brano parte in modo soft, per poi accelerare, ritornando ad essere delicato nella sua parte conclusiva.

Si può dire in qualche modo che si tratti di una canzone d’amore, in cui Max Casali cerca di capire i motivi che stanno alla base di certi comportamenti, di certe azioni, di certi avvenimenti, senza però riuscire a trovare la chiave giusta per dare un’interpretazione a tutto questo. Nonostante tutto, ci sarebbero alcuni semplici comportamenti che potrebbero essere tenuti per cercare di giungere ad una soluzione del problema, la cui base appare essere una sorta di incomprensione tra le parti e una voglia di avvicinarsi che appare smarrita.

Il disco procede poi con il brano “Tanto Pubblico”, quello che mi è parso come il più difficile da interpretare. Si parla infatti di persone pigre, che sfogliano il libro della vita scegliendo solo le pagine più semplici e lasciando il resto agli altri, che si annoiano nella loro condizione di immobilità. Sembra che l’autore si chieda cosa serva avere tante persone che ascoltano, se poi il loro modo di ascoltare è completamente passivo, non dà spunti di riflessione: egli si chiede cosa farebbe se avesse a disposizione una vasta platea ad ascoltarlo e conclude che passerebbe la mano, perché l’ammiccamento non fa per lui, che è una persona semplice e genuina.

La base musicale è piuttosto gradevole, con una chitarra acustica che suona accordi prevalentemente in maggiore, creando un’atmosfera favorevole alla riflessione personale e invogliando a pensare alle cose che succedono ogni giorno, un po’ in contrasto con il pubblico passivo di cui si parla invece nel testo. Non basta avere tanto pubblico davanti a sé, è necessario anche capire come trattarlo e fare in modo che esca dall’immobilità in cui sembra essersi fossilizzato: ognuno di noi potrebbe far parte di questa sconfinata platea, e dovrebbe avere il coraggio di proporre un modo per cambiare le cose, se chi sta in alto sul pulpito non fa niente per creare una visione, una prospettiva giusta, in cui tutti si possano riconoscere.

La canzone che ci viene proposta in seguito è significativa perché cambia un po’ gli schemi su cui si era basato il disco fino a questo momento: abbiamo infatti delle strofe parlate e dei ritornelli cantati.

Le strofe sembrano creare la premessa per quello che verrà poi rivelato in tutta la sua pienezza all’interno del ritornello. Una volta, i latini dicevano “panem et circenses”, perché a quei tempi si usava imbonire il popolo, dandogli da mangiare un misero tozzo di pane e fornendogli il divertimento che desiderava attraverso gli spettacoli delle arene. Di questi tempi, come spiega l’autore, avviene più o meno la stessa cosa: il popolo, la gente comune, subisce una manipolazione vera e propria, venendo costretta dai mezzi di comunicazione o comunque dai poteri forti a credere in verità che alla fine non si dimostrano tali, ricevendo degli spunti che sembrano forti, interessanti, ma che alla fine servono solo a tenere le persone buone e a fare in modo che non abbiano un pensiero loro, ma che si attengano al modo di pensare inculcato dall’alto. Interessante risulta a questo proposito ancora una volta il titolo. “Manipo(po)lazione”, che va ad unire i due elementi cardine della canzone, cioè il mezzo che viene utilizzato, cioè la manipolazione, e il suo destinatario, la popolazione.

Max Casali arriva a dire che ci vogliono mediocri e deficienti e secondo me non va lontano dalla realtà: se guardiamo il telegiornale, ci convinciamo che tutto va male e che non c’è nessun rimedio, se invece guardiamo la pubblicità vediamo un mondo idilliaco, fatto di felicità, comodità e di modelli comportamentali che alla fine si rivelano falsi e illusori. Insomma, veniamo presi in giro due volte, e alla fine ci troviamo nella situazione di non saper più a cosa credere veramente. Per fortuna che ognuno di noi è dotato di una testa pensante, che dovrebbe essere in grado di distinguere ciò che è appunto manipolazione da ciò che è reale, facendosi una propria idea ben precisa di come stanno le cose e arrivando a ribellarsi a ciò che viene propinato come verità assoluta. Se comunque guardiamo per esempio al mondo di Internet, con tutte le bufale che circolano, ci cascano le braccia, perché leggiamo cose che ci inducono a pensare al peggio, quando invece si tratta prevalentemente di falsità e di argomentazioni inventate per spaventarci. Bisogna avere il coraggio e la capacità di distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, cosa che non sempre è facile, lo ammetto.

Abbiamo poi un’altra canzone di difficile interpretazione, “Il Resto Manc(i)a”: appare secondo me come una critica alle logiche del mondo musicale, che crea molte volte delle false attese negli artisti, che aspettano con impazienza che si parli di loro, che il loro nome circoli, ma che alla fine vengono ripagati con una moneta dallo scarso valore e non vengono considerati per quello che meritano. L’espressione presente nel titolo viene di solito utilizzata per indicare qualcosa di positivo, un premio che viene dato a chi ha lavorato per noi, ma a mio parere all’interno della canzone assume un significato dispregiativo, nel senso di dire “ritieniti fortunato che ti ho dato tutto questo compenso e questa visibilità, che secondo me è anche troppa, e tieniti il resto come mancia senza protestare”.

Anche in questo caso la base melodica è gradevole, con una chitarra acustica a fare da spensierato sottofondo: mi sono accorto che appare sempre più come un modo di fare consolidato dell’autore il contrapporre delle melodie che danno un senso di positività, ballabili e orecchiabili, a dei testi che invece non la mandano a dire, che infieriscono sulle ingiustizie di questo mondo e le denunciano: chissà se l’ascolto di questo album aprirà la mente alle persone.

Ed eccoci alla “Resa dei Ponti”, un titolo che da solo fornisce già qualche spunto di riflessione, perché prima o poi tutti i nodi vengono al pettine.

La canzone parla di tutte le catastrofi naturali che potevano essere evitate, se a dominare non fossero stati gli interessi politici, gli accordi sottobanco, il disinteresse per il bene del nostro Paese e della nostra natura. I ponti crollano, ci sono alluvioni, tempeste e fenomeni atmosferici anomali e loro (i politici) cosa fanno? Se ne vanno al mare e invitano a non bussare alla propria porta, ma a girarsi dall’altra parte. Intanto i familiari delle vittime aspettano una giustizia che probabilmente non arriverà mai, perché ci si riempie la bocca di promesse, ma poi queste stesse promesse raramente vengono mantenute.

Di questo brano mi è piaciuta soprattutto la seconda parte, in cui al suono della chitarra acustica fa da accompagnamento quello che sembra il suono di una tromba o delle tastiere: il tutto crea un’atmosfera piuttosto malinconica, nostalgica, che ben si adatta al testo e all’argomento della canzone. Ho apprezzato anche il gioco di rimandi, di cori, fatto per dare ancora più forza alle affermazioni fatte da Max.

Se non ne rendono conto adesso, tutti i politici che hanno fatto finta di niente arriveranno a renderne conto in futuro, e il conto sarà salato.

Dopo aver denunciato tutte le brutture del nostro Paese, che potrebbe essere il pià bello del mondo, l’autore conclude il disco sottolineando la forza del nostro popolo: secondo me, non poteva esserci conclusione più degna per l’album, anche perché altrimenti sarebbe stato solamente di denuncia sociale, ma non avrebbe offerto positivi spunti di riflessione, tranne che in alcuni casi.

Max dice che in realtà non siamo il popolo di santi, poeti e navigatori, come solitamente veniamo descritti, ma che rappresentiamo dei maghi nella capacità di arrangiarci in ogni situazione, di uscire da ogni difficoltà, trovando la scappatoia giusta. Siamo dunque un “Popolo di Maghi”, con la bacchetta sempre sottobraccio, per compiere degli incantesimi di abilità che ci permettono di cavarcela sempre nella vita.

Della canzone ho apprezzato il breve assolo di chitarra presente nella parte centrale del brano, che crea varietà e contribuisce a spezzare il ritmo del pianoforte, che sembra avere un andamento quasi swing nel suo incedere.

Se non ho capito male, viene citata la città di Napoli come simbolo di questa innata capacità di cavarsela, una città simbolo della bellezza nel mondo, ma anche del degrado e della delinquenza.

Mi ha sorpreso infine la vocalità dell’artista, che in questa canzone mostra lampi inaspettati, esprimendosi in qualche acuto e alzando la propria tonalità, per sottolineare determinati passaggi del brano.

Alla fine ci resta un album molto variegato, dallo stile e dalle influenze piuttosto varie, che attraverso un linguaggio perlopiù semplice e comprensibile riesce a denunciare tutto ciò che non va nel nostro Paese, riuscendo al contempo a celebrare l’abilità del nostro popolo ad uscire dalle situazioni più intricate.

Credo che il già citato Rino Gaetano sarebbe orgoglioso di questo album, che, dove lui utilizzava l’ironia, fa uso di un linguaggio diretto e lineare, che va dritto al punto, senza troppe metafore.

Questo è quello che mi ha colpito e mi è piaciuto di più del disco che ho recensito, un album pregno di parole, significati e immagini, che non si ferma davanti a nulla e non ha paura di creare scompiglio, dicendo sempre la verità.

 

 

 

 

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