Ascoltando l’album “Sogno solo aria” di Itaka Reveski ho avuto subito l’impressione di trovarmi di fronte ad un disco emotivamente carico, evocativo, quasi sognante, in cui si respira un’atmosfera “ovattata”, che letteralmente culla e accompagna l’ascoltatore in un viaggio alla ricerca di sé stesso e della sua vera identità.
Risalta in tutte le canzoni un’ottima e ben prodotta linea di chitarra acustica, il cui suono e limpido, pulito, senza imperfezioni, il perfetto accompagnamento quindi per dei testi all’inizio piuttosto ripetitivi, quasi che l’intenzione dell’artista fosse quella di ribadire alcuni concetti per lui importanti, quali le capacità introspettive dei messaggi comunicati, capaci di scavare dentro l’animo di chi si mette all’ascolto dei brani e farlo riflettere, la voglia di distaccarsi dal mondo in cui egli si trova, per volare più alto, verso la luna.
La voce dell’artista è morbida e vellutata, e ben si adatta all’atmosfera creata dall’album, molto leggera e soft: devo ammettere che, quando ho ascoltato per la prima volta il disco di Itaka, mi è venuto quasi da chiudere gli occhi e sprofondare in un sogno senza fine, fatto di immagini evocative e di parole eteree, quasi sospese nel vuoto, leggere. L’immagine che mi è venuta in mente è quella presente nella prima scena del celeberrimo film “Forrest Gump”, in cui si vede una piuma bianca che volteggia leggera per l’aria, prima di depositarsi sulla panchina in cui è seduto il protagonista della pellicola.
L’artista dimostra poi un gran coraggio, perché in uno dei brani esegue una cover di uno dei maggiori successi di Lucio Battisti, “I Giardini di Marzo”: la sua versione è molto più soft, delicata dell’originale, ma rispetta l’impatto emotivo che Lucio ha voluto dare al proprio brano, una canzone romantica e sognante, che utilizza immagini semplici, appartenenti alla vita delle persone comuni, ad un’umanità della quale viene raccontata la quotidianità, che fa da sfondo ad un rapporto amoroso apparentemente difficile, un po’ complicato, in cui lei chiede al suo amato di essere aiutata, sicura che con il suo appoggio riuscirà a venir fuori dal momento difficile in cui si trova. Lui però si trova a combattere con i propri demoni interiori, ed osserva dall’esterno ciò che gli succede intorno, apparentemente deluso da sé stesso e dalla sua incapacità di vivere realmente, di avere una vita normale e quindi anche un rapporto affettivo normale.
Mi ha incuriosito molto il modo in cui sono scritti i titoli dei brani, attraverso alcuni simboli, che si mescolano alle lettere dell’alfabeto, creando un effetto interessante, che quasi riporta ad un passato molto remoto, in cui si scriveva con dei caratteri speciali: se è vero che l’album vuole rappresentare un viaggio interiore, come afferma l’autore, sulla scia di quello che fece concretamente Ulisse per tornare ad Itaca (non a caso, questa parola costituisce una parte del suo nome), questa combinazione di simboli e caratteri “normali” costituisce una soluzione molto rappresentativa e letteralmente adatta a dare seguito alle aspirazioni che coltiva l’artista, alla sua fame di ricerca, alla sua voglia di uscire dal mondo in cui si trova per volare alto.
Itaka afferma inoltre che non è peccato qualche volta mostrare le proprie emozioni e i propri conflitti interiori, senza avere l’ansia di apparire sempre perfetti: ognuno ha il diritto di apparire così com’è in un determinato momento della sua vita, senza sforzarsi di sembrare a tutti i costi felice e realizzato.
Nelle canzoni dell’album appare questa sensibilità, questo desiderio di uscire da una realtà che non si percepisce come propria, per salire verso l’alto, perché non si vuole “stare giù”. La vita appare come un’attesa del passaggio del proprio mondo reale all’interno della vita dell’artista, in modo che lui possa “salirci su”, senza subire rallentamenti, proprio per non cadere giù.
Itaka, con il procedere dell’album, si spinge ancora più lontano, invitando quella che appare essere la sua lei a seguirlo fin sulla Luna, quasi che il nostro satellite possa rappresentare un’amico fidato, in grado di percepire e dare un’interpretazione ai suoi reali sentimenti, guardando tutti dall’alto, senza la paura di doversi mostrare sempre perfetti e senza difetti.
A mio parere, non c’è un titolo più rappresentativo di quello della canzone “Delle Sirene il Canto”: se il nostro artista rappresenta un moderno Ulisse, che, attraverso i brani del suo album, compie un percorso di profonda ricerca del vero sé stesso, guardandosi dentro e ripercorrendo alcuni frammenti della propria vita, non c’è niente di meglio del fatto di riportare all’interno di un brano un episodio del poema epico di cui lo stesso Ulisse è protagonista.
Nell’ultima canzone, tutto sembra essere riportato alla cruda realtà, perché si parla della mancanza di voglia di uscire il sabato sera, dell’essere costretti a stare in una bolla sospesa nel tempo, a chiudersi in casa: il tutto appare proprio come un diretto riferimento all’attuale situazione, condizionata pesantemente dalla pandemia. Non a caso il brano si intitola proprio “20”, come l’anno in cui il virus ha cominciato a diffondersi.
Ci sono quindi, all’interno dell’album, sia la rappresentazione di una ricerca interiore, sia quella della situazione che si svolge all’esterno: penso che questo mix sia azzeccato, perché per comporre la “personalità emotiva” di un individuo sono necessarie sia le emozioni che prova interiormente che gli stimoli che la realtà esterna gli fornisce.
L’elemento che ritengo fondamentale e ricorrente in questo disco è la voglia di fuggire, di scappare da qualcosa che costringe, che blocca, che frena la libertà di fare quello che si desidera fare.
Itaka vuole stare su, in alto, su una nuvola, saluta con un arrivederci, invita la sua lei ad andare sulla Luna con lui, sente il canto delle sirene che lo ammalia e si chiede cosa succederà quando non avrà più voglia di uscire il sabato sera, restando chiuso in casa, all’interno di una bolla sospesa nell’aria.
Secondo me la cover della canzone “I Giardini di Marzo” di Battisti non è quindi casuale, perché parla di una personalità che non si sente integrata con gli altri, che non si sente pronta ad essere un punto di riferimento per la propria donna, che sente di avere un universo intero dentro di sé, ma non ancora il coraggio di vivere. Un distacco dalla realtà che si può accostare secondo me a quello che prova Itaka, nel suo viaggio interiore alla ricerca di sé, per trovare la propria vera identità, qualcosa di diverso da quello che gli altri vorrebbero sempre vedere.
Nel complesso, ci resta un buon disco prevalentemente acustico, i cui testi vanno ad arricchirsi gradualmente nel suo sviluppo, partendo dalla ripetizione quasi ossessiva di alcune frasi a strofe maggiormente articolate, che sviluppano più a fondo il messaggio insito nell’album.
Quello che è certo è che per apprezzare il lavoro di Itaka è necessario amare un certo tipo di musica, che può fare anche dell’essenzialità la propria matrice stilistica: si può parlare di un disco dalle molte sfaccettature, in grado di piacere a un’ampia platea di ascoltatori, perché la linea di chitarra acustica è piacevole e ben eseguita e perché sono presenti diverse dinamiche testuali, da quella minimalista a quella più pregna di contenuti. Come detto, è però necessario avere l’attitudine ad apprezzare un certo tipo di canzoni: da parte mia, sono sicuro che esiste in Italia un gran numero di fruitori di musica ai quali può piacere un album di questo genere, che abbina la modernità alla classicità, rappresentate rispettivamente dal minimalismo dei testi e della perfezione sonora della chitarra acustica.
L’invito è dunque quello di ascoltare il disco con attenzione, senza soffermarsi al primo ascolto, ma approfondendone la fruizione, per arrivare a carpire il filo conduttore che ne determina lo sviluppo.