Immagino che molti di voi, dopo aver letto il titolo del mio articolo, si siano chiesti: “Ma questo dove è stato finora?”. E avete ragione, almeno in parte, perché scoprire un gruppo come i Dream Theater nel 2020 sembra un po’ paradossale.
Tranquilli, non siete i soli a pensarlo, perché anch’io sono della vostra stessa opinione.
Il fatto è che ho sempre sentito parlar bene di questo gruppo, guidato da John Petrucci, il chitarrista con i bicipiti più grandi del mondo, ma chissà perché non ho mai avuto il tempo o la voglia di ascoltarlo.
Nella giornata di oggi, però, dato che sono stato un po’ in giro in bicicletta con gli auricolari nelle orecchie, ho deciso che li avrei ascoltati a qualunque costo.
Alla fine, è quello che ho fatto: devo ammettere che ne è valsa veramente la pena, perché la musica del gruppo ha rispettato le mie attese.
Se li dovessi classificare sotto un genere in particolare, direi Progressive Metal, per l’articolazione e la pesantezza melodica di cui danno sfoggio.
La band dimostra di aver imparato molto bene la lezione da gruppi quali i Rush, i Genesis e gli stessi Tool: queste sono a mio parere le band che possono aver influenzato lo stile dei Dream Theater, poi ognuno è libero di osservare le influenze che ritiene più pertinenti.
Le canzoni del gruppo si possono considerare come delle vere e proprie suite, costituite da più movimenti e parti. Come diceva il mio maestro di chitarra classica, si può parlare di un tema principale, che poi viene sviluppato in più variazioni.
Mi sono venuti in mente i Rush perché la voce del cantante assomiglia in alcuni tratti a quella di Geddy Lee, ma anche per la complessità della costruzione melodica dei pezzi, che, come detto, partendo da un’idea di base, la sviluppano poi in più parti diverse, attraverso un ampio raggio di soluzioni e di idee melodiche.
Ho pensato anche ai Genesis, perché il sound dei Dream Theater in alcune canzoni dal carattere meno metal e più progressive mi ricorda molto quello della band di Peter Gabriel e Phil Collins.
Infine, ecco i Tool: il motivo di quest’associazione è dato dalla pesantezza del suono che il gruppo americano presenta all’ascoltatore nella maggior parte dei suoi brani, un suono tipicamente metal, con la chitarra di Petrucci che la fa da padrone e domina la scena.
Devo ammettere che ho apprezzato molto anche le parti di basso, strumento che in alcuni frangenti esegue dei veri e propri assoli, nei quali il grande John Myung da prova della propria abilità e della varietà di soluzioni che è in grado di proporre. Qui si ritorna per un momento ai Rush, dato che è arcinoto che il basso è uno degli elementi fondanti e costitutivi non solo delle canzoni, ma anche dello stile musicale del gruppo di Geddy Lee.
Nell’affrontare per la prima volta l’ascolto di un gruppo così importante per la storia della musica recente, ho preferito procedere un po’ “a random”, come si dice in gergo: piuttosto che partire da un album preciso, ho deciso di lasciar fare a Spotify, che mi ha proposto una serie di canzoni del gruppo, provenienti da dischi diversi. Se da una parte questo non sarebbe in realtà l’atteggiamento giusto per approcciare un gruppo che si ascolta per la prima volta, dall’altra mi ha consentito di apprezzare e godere delle varie soluzioni adottate dai Dream Theater nel corso degli anni.
Devo ammettere che Spotify ha svolto molto bene il proprio compito, facendomi ascoltare canzoni molto diverse tra loro, alcune dal sound più pesante, che è poi quello che caratterizza maggiormente il gruppo, ed altre dall’andamento più lento e compassato, quasi fossero brani di musica classica, in cui la melodia riesce quasi a cullare l’ascoltatore, trasportandolo in mondi onirici a di fantasia e facendo volare la sua mente ed i suoi pensieri verso mete a lui magari sconosciute, ma in grado di solleticare la sua immaginazione in modo molto dolce e suadente. Non per niente il nome del gruppo significa “Teatro dei Sogni”.
Insomma, i Dream Theater non hanno secondo me tradito le attese: ascoltarli per la prima volta è stata un’esperienza molto stimolante ed interessante, che mi ha fatto capire che la musica, se fatta con passione ed intelligenza, ha sempre un buon impatto sul pubblico, che comunque deve essere ricettivo e preparato a ciò che può attenderlo dall’altra parte degli auricolari, per così dire.
Ascoltando il gruppo statunitense, inoltre, mi sono reso conto che la varietà di stili musicali che possono essere presenti all’interno di un brano è praticamente smisurata ed infinita: come il Progressive ci insegna, più si è in grado di fornire stimoli differenziati all’ascoltatore, più quest’ultimo verrà incuriosito e solleticato da questa molteplicità di influenze, e quindi vorrà ripetere l’esperienza più e più volte.
Poi è ovvio che un tipo di musica così articolato e vario non possa piacere proprio a tutti: ho sempre detto che la musica raggiunge prima il cuore e poi il cervello, come affermava anche il grande Ezio Bosso, ma in questo caso devo ammettere che le canzoni dei Dream Theater hanno stimolato prima la mia mente e poi sono arrivate al cuore.
Secondo me, il Progressive è l’eccezione che conferma la regola: la sua complessità e varietà punta a raggiungere per prime le onde celebrali ed una volta che l’ha fatto, coinvolge anche il cuore. Potremmo definire questo genere come “cibo per la mente”, come una fonte inesauribile di idee e proposte, che invitano il nostro cervello a lavorare e lo allenano a capire e “digerire” stili ed influenze diverse. Alla base di tutto, comunque, come mi è capitato spesso di ripetere, ci deve essere la voglia ed il desiderio di abbeverarsi a questa fonte, perché, se non ci si dispone all’ascolto con l’atteggiamento giusto, la musica farà fatica anche solo a raggiungere il cervello.
E’ necessario focalizzarsi sul momento dell’ascolto, senza lasciarsi distrarre da altro: io oggi, per esempio, facevo fatica a salutare le persone che incrociavo nel mio tragitto, talmente ero concentrato su ciò che stavo ascoltando. Non preoccupatevi comunque, le ho salutate tutte lo stesso.
Dato che finora ho ascoltato solo una piccola parte della discografia della band, continuerò con la mia opera di apprendimento: chissà, magari potrebbe uscire un altro articolo sui Dream Theater, proprio perché credo che non abbiano ancora finito di stupirmi.
Quindi, come si dice in questi casi, “Stay Tuned!”