La giornata di ieri è stata speciale per il mondo della musica, in quanto uno dei più grandi chitarristi, blues e non solo, della storia, ha compiuto 75 anni.
Parlo ovviamente di Eric Clapton, la cui complessa ed a volte tormentata parabola artistica possiede il fascino magnetico che solo le grandi storie trasmettono.
La sua vita è stata imperniata ed immersa nel blues, genere che lo ha guidato fin da ragazzo, quando cercava di imitare, con la chitarra ricevuta in dono a tredici anni, gli accordi e le sonorità dei grandi artisti di questo genere, che ascoltava attraverso un registratore portatile.
A dispetto di tutto ciò che è venuto dopo, non è stato assolutamente facile per il giovane Clapton imparare a suonare la chitarra, tanto che ha anche avuto l’intenzione di abbandonarla. Ma la sua tenacia e l’amore per il blues hanno prevalso su tutte le difficoltà.
Dopo aver cominciato a suonare per le strade, entrò giovanissimo negli Yardbirds, che lasciò per partecipare brevemente all’avventura dei Bluesbreakers di John Mayall, il più grande scopritore di talenti blues della storia. Con loro si esibì per la prima volta nel 1965, per poi pubblicare il celebre album “Bluesbreakers with Eric Clapton”: si dice che, in seguito al suo importante contributo al disco, sia apparsa nella metropolitana di Londra la celebre scritta “Clapton si God”, cosa che non fece che aumentare la sua popolarità, diffondendo il suo nome nel circuito musicale mondiale. In quel periodo, conobbe il batterista Ginger Baker ed il bassista e compositore Jack Bruce, insieme ai quali fondò i Cream, considerato da alcuni il primo supergruppo della storia: si trattava di un’ensemble di tre grandissimi musicisti, ognuno dei quali era libero di esprimere al massimo le proprie capacità interpretative, senza sottostare ai limiti imposti dalla canzone pop. “Sunshine of Your Love”, “White Room” (scritta da Jack Bruce) e “Badge” (realizzata in collaborazione con l’amico George Harrison) furono i maggiori successi del trio e quindi di Clapton stesso in quegli anni. Alla fine degli anni ’60, all’apice della popolarità, i Cream si sciolsero.
Negli anni immediatamente successivi, la carriera di Eric assunse un carattere più irregolare: insieme a Ginger Baker ed all’amico Steve Winwood fondò i Blind Faith, che però ebbero vita breve, incidendo un solo disco. Un’altra breve collaborazione fu quella con i Delaney & Bonnie: anche con questo gruppo, Clapton incise un solo disco.
Dopo aver dato alle stampe il suo primo album solista nel 1970, che non ebbe un grandissimo riscontro, fondò i Derek and The Dominos, gruppo di cui fece parte anche il grande chitarrista Duane Allman: il loro disco “Layla and Other Assorted Love Songs” si sorreggeva proprio sui dialoghi fra le chitarre di Clapton ed Allman. In esso era presente una canzone, “Layla”, che divenne uno dei cavalli di battaglia di Eric, insieme alla successiva “Cocaine”, scritta da J. J. Cale.
Nei primi anni ’70, la vita di Clapton fu segnata da alcuni lutti, che fece fatica a rielaborare e che furono causa della sua dipendenza dalle droghe e dall’alcol: prima morì Jimi Hendrix, al quale era legato da una profonda amicizia e poi fu la volta di Duane Allman, morte che segnò la fine dell’esperienza dei Derek and The Dominos.
Si chiudeva quindi la prima parte della carriera di Clapton, quella dei supergruppi.
Con l’aiuto di alcuni amici Eric riuscì a riemergere dal baratro in cui era sprofondato, ritornando alla musica con il disco solista “461 Ocean Boulevard”, che, trascinato dalla hit “I Shot The Sheriff”, cover di un pezzo di Bob Marley, ottenne un buon successo: l’album segnò la definitiva partenza della carriera solista del musicista e fu l’archetipo su cui si fondarono i suoi album successivi, un ottimo mix tra blues, ballads e laid-back. Nel 1988, partecipò con i Dire Straits al concerto tributo per i 70 anni di Nelson Mandela, una tappa del tour di quello stesso anno, che coinvolse gli amici Mark Knopfler ed Elton John.
Il 27 agosto 1990, il grande Stevie Ray Vaughan morì nello schianto dell’elicottero sul quale lo stesso Clapton sarebbe dovuto salire, per tornare in albergo dopo un concerto. Ma non era finita qui: l’anno successivo, il figlioletto Conor morì in seguito ad una caduta dal 53esimo piano di un palazzo di New York, a causa di una finestra lasciata aperta da una domestica. Questo tragico evento segnò ancora di più, se ce ne fosse stato bisogno, l’animo di Eric, che rielaborò parzialmente il lutto dedicando al figlio la commuovente “Tears in Heaven”, diventata nonostante tutto uno dei suoi maggiori successi.
Il 1992 segnò una nuova rinascita per il musicista: il disco tratto dal suo concerto per il programma “Unplugged” di MTV ottenne un enorme successo, vendendo molto e vincendo vari premi. In questo album, la canzone “Layla” divenne famosa anche in versione acustica.
In quell’anno, Clapton fu molto attivo, collaborando ancora con Elton John e poi con Sting e partecipando al concerto per i 30 anni di carriera di Bob Dylan.
In seguito al successo del suo ultimo lavoro in studio, decise di tornare alle sue radici blues, pubblicando nel 1994 un album di cover di brani di artisti afro-americani del secondo dopoguerra, ovvero le sue maggiori fonti di ispirazione.
Negli ultimi anni, Clapton ha alternato produzioni mainstream ad album di matrice prettamente blues. Nel 2004 e nel 2007 ha organizzato un grande Festival della chitarra blues, il “Crossroads Guitar Festival”, a cui hanno partecipato molti grandi artisti blues. Nel 2006 è riuscito finalmente a collaborare con J. J. Cale e si è esibito anche in Italia, con un tour da tutto esaurito.
Nel 2014 ha pubblicato un album in cui omaggiava lo stesso J. J. Cale, realizzato con la collaborazione di Mark Knopfler, John Mayer, Willie Nelson, Tom Petty e Derek Trucks: il disco ha ottenuto un buon successo.
L’anno successivo, ha tenuto sette concerti alla “Royal Albert Hall” di Londra, uno dei quali è stato registrato per produrre un dvd.
Nel 2016, Clapton ha dichiarato di essere affetto da una neuropatia periferica: nonostante questa ennesima difficoltà che si è posta sul suo cammino, non ha appeso la chitarra al chiodo ed ha continuato ad esibirsi fino ad oggi.
A mio parere, se Clapton dovesse tracciare oggi un bilancio della propria carriera, esso sarebbe estremamente positivo. Tra tormenti, dipendenze, lutti e rinascite, ha segnato indelebilmente la storia della musica blues e può essere considerato uno dei migliori chitarristi del mondo, nella cui lunghissima carriera possiamo trovare un senso di grande umanità e di velata malinconia, unito ad una ferma determinazione e ad una grande voglia di rialzarsi dopo ogni caduta.
La storia di Clapton, come detto, è estremamente umana e può essere uno specchio di fronte al quale porsi per affrontare la vita e le difficoltà che essa ci pone, senza arrendersi mai e cercando il supporto di chi ci vuole veramente bene, per poi magari ricambiare il favore quando chi amiamo vive a sua volta un periodo difficile.
Grazie di esistere, caro Eric: ti hanno soprannominato “Slowhand” per la lentezza con cui rimontavi le corde della chitarra quando si rompevano. Secondo me, questa lentezza era un sintomo di serenità interiore, della consapevolezza che, nonostante tutto, ce l’avresti sempre fatta, come infatti è successo.