Stasera mi va di supportare la causa di un gruppo secondo me troppo bistrattato o comunque non tenuto nella dovuta considerazione.
Questa band risponde al nome di Red Hot Chili Peppers.
Li ascolto da anni ormai e posso dire che costituiscono una delle mie colonne sonore preferite, perché in grado di darmi la giusta carica ogni volta che ne ho bisogno.
Aldilà di questa riflessione puramente personale, due sono i motivi principali per i quali mi sento in dovere di sottolinearne la grandezza: il primo è che hanno di fatto inventato un genere che prima di loro non esisteva, portando una ventata di aria nuova nel mondo del rock ed affermandosi come punto di rottura con il passato.
Questo stile innovativo ha fatto della contaminazione la sua cifra principale, prendendo il suono scarno e diretto del punk e miscelandolo efficacemente con il groove caratteristico del funk.
Il mix si è rivelato estremamente azzeccato e di successo, forse perché, tra le altre cose, è riuscito a conquistare e fondere tra loro due ambiti musicali che fino a quel momento erano rimasti piuttosto separati.
Non di solo punk e non di solo funk ovviamente si parla, dato che i generi rappresentati all’interno dei dischi del gruppo sono stati molteplici. Ciò che però risalta subito all’attenzione di un orecchio minimamente allenato è questa efficace convivenza tra, mettiamola così, Sex Pistols e James Brown.
La seconda ragione per cui amo questa band è il fatto che hanno coverizzato una delle mie canzoni preferite, “Higher Ground” di Stevie Wonder, che considero l’artista di colore migliore di sempre, una combinazione esplosiva di precocità, talento e forza di volontà.
Ritenere Stevie un punto di riferimento e considerarlo a tutti gli effetti tra le proprie primarie influenze è già di per sé, senza dubbio, un indicatore di grandezza.
A questo punto del “racconto”, una precisazione mi sembra doverosa: quando parlo di Red Hot Chili Peppers, mi riferisco alla “formazione tipo” della band, quella cioè formata da Antony Kiedis, Flea, John Frusciante e Chad Smith.
Nessuno mi impedirà mai di ritenere Flea, al secolo Michael Balzary, uno dei più grandi bassisti di tutti i tempi. Ve lo dice uno che, da modesto autodidatta, si è cimentato con le sue linee di basso ed ha dovuto lottare molto per uscirne in qualche modo vincitore.
Flea ha tutto: stile, precisione, originalità, tecnica, velocità. Sa tenere il ritmo come pochi, sa essere una presenza costante, ma è in grado anche stupire ed uscirsene con passaggi inaspettati e particolari, articolati al tal punto che sembra di sentire una chitarra.
Ne è chiara testimonianza il fatto che alcune delle canzoni del gruppo hanno come linea melodica principale quella, appunto, del basso: in alcuni brani, è il basso a fare da guida e tutti gli altri seguono.
Che dire poi di Chad Smith, uno che fa della potenza abbinata alla regolarità la sua matrice stilistica? Quando si parla di groove, lui può alzare la mano e dire “Eccomi, vi posso insegnare qualche trucco”.
Credo francamente sia impossibile pensare di costruire, rendere efficaci ed immediatamente fruibili dei pezzi di questo livello ritmico senza avere un fuoriclasse seduto dietro la batteria.
Su Youtube c’è il video di una session basso-batteria dei due personaggi in questione: guardarla è il modo migliore per capire a fondo quello di cui sto parlando, provare per credere.
Ho parlato di Flea e Chad perché sono secondo me i due componenti del gruppo che forniscono gli elementi di base per rendere concreto il discorso sullo stile: attraverso il breve racconto delle loro gesta, sono riuscito a trasformare una sensazione in qualcosa di vivibile e sperimentabile.
Questo non significa che non valga la pena di parlare di Antony e John: anzi, ci vorrebbe probabilmente un altro articolo.
Restare dunque sintonizzati su queste frequenze: il discorso sui peperoncini rossi potrebbe non essere finito qui.
Alla prossima.